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A pensarsi democratici, di questi tempi, ci si sente in imbarazzo: assillati dal dubbio di non averci capito nulla, di essere offesi o manipolati, rosi dalla certezza di avere poche alternative praticabili tra una logica del meno peggio e un qualunquismo cospirativo, un antagonismo fricchettone e un comunquismo rassegnato.

La realtà è che le regole del gioco sono queste, non le abbiamo scritte noi e non tutti le condivideremo mai tutte: ce ne dobbiamo fare una ragione pur mantenendo le nostre ragioni.

La realtà, al netto di complottismi e fedi cieche, è che il mondo democratico, ovvero quello che si autoproclama tale, sbandiera il vessillo del migliore dei sistemi possibili, mostrandosi ciononostante capace di prendere le decisioni più insensate e meschine a fronte di situazioni in cui analoghi precedenti, con carattere esemplare, indicherebbero altra via.

Chi teorizzò la democrazia – mi si perdoni la semplificazione concettuale e storica – immaginò che ci fosse una via alternativa tra il governo di uno, quello di pochi e quello di nessuno che lascia spazio ad uno dei primi due.

Ne nacque l’idea di un governo dei molti (di cui il concetto di popolo sovrano è solo moderna e talora velleitaria propaggine) destinato ad equilibrare prepotenze e privilegi, limitando così le ingiustizie ad ampio spettro e profonda gravità che ne conseguono inevitabili.

Il problema della democrazia è, tuttavia, che si tratta di un sistema pensato a misura di persone mediamente responsabili e tendenzialmente intelligenti, dato in mano a gente che non perde occasione per mostrarsi tendenzialmente inaffidabile e altrettanto stupida.

Da questo corto circuito difficilmente si viene fuori.

Di questo corto circuito l’Italia è, per quanto giovane proselita, maestra.

Novella Penelope della democrazia fa e disfa con lucida inconcludenza, inseguendo il miraggio taumaturgico del cambiamento – la sola parola evoca scenari miracolosi! – finalmente risolutivo, per poi attribuire ad esso le colpe dei propri mali e rimpiangere con la medesima fanatica convinzione ciò che era prima, in una dialettica illusoria e improduttiva nei suoi effetti almeno quanto lo è nelle premesse e nelle argomentazioni che la sostengono.

E’ il peccato originale da cui il nostro perfettibile modello democratico non riesce ad affrancarsi. Condannato a non vivere una sua maturità esso si muove tra una pubertà ingenua e subalterna ed una senilità demente e autoreferenziale, nutrendosi di populismi vigliacchi, revisionismi pretestuosi, arrivismo cinico,  confuse rivendicazioni sociali e frenesie di potere, futurismi rimasticati e istinti sovversivi, che si innestano tutti su una struttura di trasversali, freddi interessi finanziari senza scalfirla; e di cui, anzi, mentre se ne servono diventano strumenti, garanzia, legittimazione.

Il Referendum di oggi non ci dirà nulla di nuovo, non ci darà nulla di buono se non il convincimento ulteriore della miseria culturale dalla quale non sappiamo uscire, della viltà e volgarità di una classe politica (…singolare sia l’unica cosa per cui si possa ancora oggi parlare di “classe”) che per quanto vilipesa, e spesso a ragione, si fa maggioranza, si fa specchio del Paese.

E senza rappresentarne esigenze e disagi pretende e tristemente riesce a determinarne umori e ambizioni.

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