(ANSA/TO)

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Un populu / mittitulu a catina / spugghiatulu / attuppatici a vucca / è ancora libiru.

Livatici u travagghiu / u passaportu / a tavula unni mancia / u lettu unni dormi / è ancora riccu.

Un populu diventa poviru e servu / quando ci arrubbanu a lingua/ addudata di patri: / è persu pi sempri.

Ignazio Buttitta

 

La lingua continua a battere su un dente che duole. Ciascun dialetto poggiava su una trama di cultura materiale, su un ordito, che era la cultura dei campi e, come ha detto una volta Sciascia, la “cultura dei mestieri”. Anche chi non era artigiano o contadino viveva quella cultura. E su quell’ordito si potevano tessere tele più raffinate. Ma è successo che quell’ordito è scomparso quasi del tutto.

Quanto all’italiano, penso che anche il suo buon uso richiederebbe un ordito di base solido, che a me sembra dovrebbe consistere in una larga adesione alla cultura intellettuale, artistica, scientifica, buona informazione, teatro, musica, cinema, libri, amore o almeno rispetto per il sapere critico, storico, scientifico. Ma è proprio qui che le note si fanno dolenti. L’enorme crescita della scolarità formale non si è accompagnata in età adulta all’adesione di cui parlo. Per troppa parte della popolazione l’italiano rischia di essere un guscio fonico, povero dei contenuti necessari per vivere nel complicato mondo contemporaneo, nel mondo “vasto e terribile”, mi pare dicesse Gramsci.

Tullio De Mauro

* Riflessioni tratte da La lingua batte dove il dente duole, Editori Laterza.

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