elliniki

 

– di Valentino Scordino –

 

Ellinikò è un quartiere all’estrema periferia di Atene. È anche il vecchio aeroporto, che è stato soppiantato dal nuovo costruito per le olimpiadi del 2004. Oggi il vecchio aeroporto è un campo profughi. Ci vivono 3000 persone di cui 300 bambini. Perlopiù siriani di Aleppo, ma anche iracheni e afghani. Vivono in tende allestite all’interno dei vecchi terminal. Non è un’attenzione socio-antropologica alle presunte radici nomadi dei profughi. È un modo per farli stare un po’ più caldi, visto che non c’è alcun tipo di riscaldamento. I servizi igienici sono costituiti da una batteria di bagni chimici esterni, le fonti di acqua potabile sono rappresentate da alcune fontanelle poste all’esterno del recinto.

I profughi sono abbandonati a sé stessi. Non possono andare in Germania o in Francia come vorrebbero: la loro sfortuna è che entrambi i Paesi sono in campagna elettorale e nessuna forza politica vuole esporsi davanti all’elettorato come quella che sostiene l’accoglienza. Oggi la solidarietà, l’accoglienza, l’integrazione, l’amore fraterno sono impopolari. Il governo greco non può farsi carico di loro, ha già troppe difficoltà a garantire i servizi minimi ai suoi cittadini. Se non fosse per l’UNCHR, per Medici senza frontiere o per Medici del mondo, sarebbero completamente senza alcun tipo di aiuto. Qualcuno ha preferito tornare indietro, alla guerra. E questo non richiede alcun tipo di ulteriore commento. Siamo arrivati dentro il recinto: non ci è permesso entrare nei locali, e forse è meglio così.

Siamo partiti dall’Italia per conoscere qualcosa della realtà dell’accoglienza greca. Incontriamo tutto il dolore possibile prodotto dall’Occidente. Il dolore cui rispondiamo col pannicello della doverosa accoglienza. 21 di noi sono adolescenti, studenti in cerca di una verità sulla vita, sul dialogo, sull’umanità. Gli adolescenti sono una forza straordinaria quando vengono fatte loro proposte serie e impegnative. Le nostre armi: due palloni e una chitarra. Basta davvero poco per attirare i bambini che dopo pochi minuti sono lì a giocare e farsi prendere in braccio e abbracciare. Senza alcuna barriera culturale, religiosa, etnica.

Dopo un po’ si avvicina anche una nonna che ha con sé una bimba piccola: ci ha visti e l’ha portata con la speranza che qualcosa possa farla sorridere, magari anche solo i nostri giochi e i nostri canti. Da qualche parte c’è anche la sorellina: loro tre sono le uniche sopravvissute di un’intera famiglia. Gli altri sono morti ad Aleppo, sotto le bombe e nel viaggio in cerca di salvezza. Il volto della nonna è una carta geografica, segnata dalle rughe, dalle macchie e da diverse sfumature di grigio. Ha voglia di parlare. Ci aiuta Shamir, il nostro mediatore. I ragazzi sono molto bravi. Io non resisto, cedo e devo allontanarmi. Non voglio farmi vedere in lacrime.

Sono sopraffatto dalle emozioni e da un devastante senso d’impotenza. È come sentirsi soffocati da una situazione che sembra senza via d’uscita. Mi sento schiacciato dalla medesima sorte di questa umanità dolorante.

(continua)

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