tarsiadi Antonio Ci –Disse Sciascia di aver letto, non ricordo più dove, che tutto quel che uno scrittore ha da scrivere è stato già scritto, inevitabilmente. Tutto quello che avevo da scrivere sulla Calabria è stato già scritto a lettere di fuoco da Tarsia nel suo pamphlet “Perché la ‘ndrangheta? Antropologia dei calabresi” (Pungitopo, 2015). Questo quello che ho pensato leggendo d’un fiato e con immensa, quasi fisica soddisfazione, questo piccolo libro, esercizio magistrale di vis polemica al servizio dell’impegno civile.
La rilfessione scientifica sul tema ha percorso il tempo con andatura quantomai ondivaga. E’ noto che la criminalità organizzata di tipo mafioso (invero, principalmente nella sua declinazione siciliana) è stata a lungo approcciata e indagata muovendo da una prospettiva preminentemente antropologica; dagli anni ’60 in avanti, in effetti, la genesi del fenomeno è stata generalmente ricercata dagli studiosi nella dimensione culturale della comunità di riferimento, arrivando la mafia ad essere presentata da alcuni quale carattere intrinseco e/o costitutivo della “sicilianità”.

E’, questa, una stagione che si chiude nel 1993 quando Lupo, con la sua “Storia della mafia”, ribalta l’ottica fino ad allora dominante, proponendo una lettura istituzionale e imponendo una svolta conseguente agli studi sulla materia. Una strada che, tuttavia, non ha tardato a mostrare criticità, con la ricerca più recente impegnata a rivalutare le contiguità, le interdipendenze e le interazioni tra attori istituzionali e sistemi culturali nel determinarsi e porre in essere di modi d’agire individuali e dinamiche collettive.
E’ in questo contesto che il contributo di Tarsia si inserisce a gamba tesa, rivelandosi originalissimo e quantomai prezioso. Tarsia fa piazza pulita degli esiti riduttivi di ogni lettura che, se svolta sul filo
di un’ottica settoriale o rigidamente disciplinare, si rivelerebbe ancora una volta – in un senso o in un altro – pur sempre parziale, e ricuce mirabilmente la frattura che ha attraversato decenni di
riflessione sul tema tratteggiando una sommaria quanto convincente ricognizione descrittiva della desolante realtà calabrese contemporanea.

Un tale approccio d’ispirazione globale è manifesto sin dall’impostazione strutturale del pamphlet, che si presenta – sorta di dittico – articolato in due sezioni (“natura” e “cultura”) speculari e distinte, ma che legano senza strappi nello scorrere di uno sguardo acutissimo, restituito da una prosa parimenti arguta e cristallina capace di concludere senza esistazioni – e non era impresa facile – l’esplorazione puntuale e precisa dell’eterno presente di un non-luogo.

C’è tutta la Calabria che ho vissuto e che vivo, in queste pagine: la gestione dissennata del territorio e del patrimonio boschivo, i siti archeologici rimessi al saccheggio e all’incuria, la violenza multiforme e feroce verso una una biodiversita’ tanto ricca quanto crassamente ignorata, il senso di inferiorita’ chiassosamente dichiarato da una esterofilia esagitata e pacchiana, la natura nemica sterilizzata col cemento “igiene del mondo”.
E’ la Calabria fisica e martoriata col bubbone di calcestruzzo della sua dimensione antropica, l’orripilante tessuto deforme della sua cubica epidermide urbana. E ci sono i calabresi, la sua malattia.

Una società fragile ed impaurita di fronte ad una modernità malcompresa, il delirio neomeridionalista che, sprezzante di ogni fattualità storica, ammannisce a comunità disgregate una facile narrazione di sé che rimesta nel fondo più torbido della nostra razionalità politica: culturalismo, identità, vittimissmo, tradizioni, nazione; e affiora dalla sbobba puteolente del blut und boden alla borbonica il mito del brigante, proiezione metastorica di un individualismo anomico e prevaricatore al servizio dei forti e forte contro i deboli, io ipertrofico e modello ante litteram del malavitoso.

Una società che, senza passato perché senza memoria, si ritrova incapace di pensare il futuro, appiattendo l’avvenire su un presente senza ragione e senza scopo. Una società ovviamente polarizzata al maschile, intessuta di sessismo e violenza di genere, e dove la violenza tra uomini si risolve ad essere luogo privilegiato della ordinaria dimensione relazionale, con tutto ciò che ne consegue.

Un narrato sismico e mordente quello di Tarsia, che tuttavia – e malgrado l’altissimo sforzo d’intelligenza che lo anima – non riesce del tutto a celare un umanissimo sconforto, quell’immensa
amarezza che ogni “uomo guidato da ragione” non può non provare di fronte a un tale sfacelo dei paesaggi e dei luoghi, a tanta vuotezza dei gesti, miseria dei vissuti.

Una nota in chiusura. “Perché la ‘ndrangheta?” ha ricevuto l’attenzione e il consenso tanto di illustri singoli quanto di numerose riviste di alto profilo e di sicura incidenza sul dibattito culturale italiano.
Al contempo, il manoscritto è stato rifiutato in malo modo da tutti gli editori calabresi e, una volta pubblicato, dai cosiddetti intellettuali locali – a vario titolo, ma salvo eccezioni pressoché all’unisono – ferocemente attaccato o relegato al silenzio, come fosse cosa ignobile o vergognosa.

Così io che non sono un professionsita della parola, e che rifuggo dal pubblico con fastidio, faccio esercizio di pubblica parola testimoniando che questo libro va promosso e difeso: e se è vero che il pensiero critico ha un senso a patto di non smarrire la sua vocazione pratica, allora leggerlo é un dovere civico.

A quanto pare in Calabria (e a beneficio dei suoi tromboni) é necessario rimarcare l’ovvio, e ribadire che bisogna affrontare i mali dell’oggi prima di vagheggiare un presente che non esiste.
“Perché la ‘ndrangheta?” e’un atto d’amore per la Calabria: meditate che nasce in esilio, e non è per caso.

Il provincialismo ottuso, l’ignoranza pacchiana, l’erudizione inutile, la povertà d’analisi e l’assenza di metodo; l’ammiccamento strumentale e ricercato all’identitarismo imbecille ed ai suoi queruli piagnistei; da ultimo, la contiguità forse più che sporadica con gli ambienti loschi del clientelismo e del malaffare: c’è tutto il marcio dell’intellighenzia calabrese a sugellare l’ostracismo di Tarsia, dopo averlo statuito. Un’intellighenzia che, se non è causa di tutti i mali di questa terra, di
certo si adopera – coscientemente o meno – a rendergli fertile il terreno. Ennesima sconfitta della ragione.

Questo il libro che Tarsia ha ora da scrivere.

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