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Nel mondo antico, da Erodoto a Machiavelli passando per Polibio e Cicerone, ebbe vasta fortuna e successivi rimaneggiamenti, una teoria politica – e sociologica, diremmo oggi – cosiddetta dell’Anaciclosi.

Si tratta di un modello che osservando il susseguirsi delle forme di governo teorizza una evoluzione circolare dei tre regimi politici principali – “buoni e sani” – nel loro corrispondente perverso e malato.

Così da una retta e saggia gestione individuale (Monarchia) deteriorata deriva nelle generazioni seguenti un regime repressivo e violento (Tirannide) il quale determina il conflitto con una classe nobile che lo abbatte e lo sostituisce (Aristocrazia) cedendo però anch’esso rapidamente il posto alla sua forma distorta di regime di pochi a tutela di pochi (Oligarchia) il cui impopolare dominio porta all’insurrezione della massa e ad un governo di molti (Democrazia) che inevitabilmente, anch’esso soggetto alle trasformazioni di tutto ciò che è umano, si muta in Oclocrazia, una sorta di anarchia demagogica e irresponsabile.

Un’evoluzione progressiva dunque, dal cui ultimo stadio di confusione populista e volubile, facilmente viene fuori una figura autoritaria e carismatica che approfittando della malleabilità della massa dà vita ad una nuova forma di potere personale – talvolta anche illuminato – riproducendo comunque la ciclicità della successione.

E così via.

Tra le varianti alla teoria qualcuno indicò sistemi politici in grado di spezzare la rotazione – il regime di Sparta per Erodoto o di Roma per Polibio, per esempio – poiché teoricamente capaci di fondere, nella struttura delle proprie istituzioni, elementi di tutte e tre le forme sane che quindi si controllano e bilanciano a vicenda.

La storia ha dimostrato, anche in quei casi, che non fu così.

A questa progressione ciclica, degenerativa e ordinata, Machiavelli aggiunge un elemento di instabilità e variabilità: il Caso, che può sparigliare le fasi o determinarne una maggiore o minore durata.

E caso vuole, per tornare ai giorni nostri, che nel mondo occidentale più che altrove, in questi anni e in modo sempre più evidente, vi sia una crisi profonda del modello democratico in una delicata fase di transizione da un mondo basato su abitudini valori esperienze e conoscenze di cui non si riconosce più la validità ad un mondo in cui si vanno ridisegnando assetti geopolitici, composizione sociale e prospettive culturali, e nel quale il paradigma egemone è quello liberista con il suo apparato onnivoro di leggi di mercato ciclicamente fallibili e costantemente indifferenti davanti ad ingiustizie e squilibri.

Preoccupato, dunque, il mio pensiero corre all’ultima fase dell’Anaciclosi, questa teoria vecchia come l’uomo e logora altrettanto, che ci ammonisce alla memoria, alla cautela e al coraggio.

Da Putin a Trump, da Le Pen a Erdogan ed Orban – per tacere delle ambizioni di nostrani aspiranti – vediamo proliferare in seno a regimi democratici e sulle rovine di essi feudatari imperialisti e vassalli neoliberisti, signorotti postcomunisti e cavalieri sovranisti  – con il corredo di cortigiani e giullari, alchimisti dell’informazione, chierici fedeli e baroni faccendieri – tutti più o meno legittimati nella grande giostra democratica.

Tutti intenti a solleticare gli istinti più oscurantisti e meschini per capitalizzarne il sostegno elettorale.

Sembra di rivedere copioni novecenteschi, repliche di una vocazione all’autodistruzione mai appagata che si nutre di proclami indipendentisti e decisioni irrevocabili, minacce nucleari, provocazioni strumentali, spettri di terrorismo e attentati provvidenziali, annessioni dolose e accuse pretestuose.

Tutto sembra irragionevole ma opportunamente inevitable, a chi – pur sospettandole – fatica a riconoscere regie e strategie abilmente mimetizzate nel caos mediatico.

Davanti a ciò ci sentiamo però liberi di continuare a coltivare la pigra illusione che ciò che abbiamo ereditato – una democrazia figlia di sacrificio e compromesso che cova in seno i germi della sua dissoluzione – sia destinato a rimanere tale a prescindere dalla nostra condotta.

E ci giustifichiamo cercando nuovi lupi, mostri, briganti, eretici, barbari, streghe, terroristi, banditi, pazzi la cui presenza ci conforti e ci assolva mentre ci trinceriamo dietro muri, mentre rinchiudiamo dietro sbarre, mentre isoliamo e puniamo, accogliamo o respingiamo per legge, mentre distruggiamo per costruire, mentre rincorrendo freneticamente il desiderio di benessere creiamo le condizioni del nostro malessere.

Niente ci sazia del tutto, niente ci commuove davvero, niente ci appassiona in modo duraturo perché ogni cosa deve essere consumata nello scintillante vuoto interiore che non può essere colmato dalle stesse logiche che lo vogliono insaziabile.

Di contro abbiamo rinunciato al nostro tempo e devastato i nostri territori scendendo a miseri accomodamenti con diritti e principi inalienabili.

Sono così creati i presupposti per cui della democrazia non si senta il bisogno.

E dunque la democrazia comincia a stancare.

Stanca quando diventa evento a scadenza elettorale o labirinto burocratico, quando è oppressione tecnocratica, quando è controversia da ultras, pettegolezzo da social, farsa da talk show, quando è privilegio incomprensibile o rampa di lancio per ambiziosi, quando è colonialismo mascherato da subire o esportare, quando invade lo spazio individuale e quando limita l’accesso a se stessa.

La democrazia stanca quando parla un linguaggio lontano e fumoso, quando non mantiene le proprie promesse di giustizia, stanca perché è pratica quotidiana che richiede un estenuante lavoro di responsabilità individuale al quale non siamo educati o che semplicemente non ci piace.

Stanca perché la libertà ereditata, obbligatoria, virtuale e obesa nella cui piacevole allucinazione viviamo, non abbiamo idea di cosa sia, non avendone mai dovuto fare a meno.

 

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