iggy

di Dario Nunnari –

Quando ogni anno lascia dietro di se’ la desolante scia di rockstars da commemorare, quando i poster della tua stanza diventano uno dopo l’altro manifesti funebri, quando ad ogni video postato sui social network un dubbio tremendo ti assale – minchia, non mi dire che è morto!?-  la notizia di un concerto di Iggy Pop, relativamente vicino e per di più gratuito, diventa automaticamente un impegno già preso.

Avevo pensato questo già nel giugno del 2005, quando al Meltin Pot festival, Iggy, con gli Stooges vivi quanto bastava, si sarebbe esibito nei pressi di Lecce, a Melpignano.

Sei ore circa di macchina in trance agonistica con ripasso generale della discografia e dell’aneddotica tutta, per non farci trovare impreparati – …manco dovessimo andare a fare un esame!- location perfetta ( un generoso parco tra gli ulivi, ideali per ogni genere di adempimenti fisiologici, turbolenze intestinali, improvvise libido ) e quattro figghioli reggini armati di gin lemon e rum&cola a temperatura ambiente – circa 28 gradi – a socializzare il proprio entusiasmo nell’atmosfera psichedelica preconcerto con le migliaia di fans giunti come noi dai luoghi e nei modi più disparati.

Neanche il tempo di un: “Ok, buona fortuna a tutti, ci si vede a fine concerto!” che il rompete le righe è sancito da una raffica di Loose, sparata come una scarica di adrenalina sul pubblico che si fonde istantaneamente in un’unica massa e inizia a vibrare, saltare, oscillare, e ululare per due brevissime ore nella notte dell’Iguana, sinuosa bestia del r’n’r che suda con noi e per noi e se la gode soddisfatto.

 

Sono passati 12 anni da quel giorno memorabile, sono passati a miglior vita Lou Reed, David Bowie, Lemmy e Chuck Berry, tra i pochi superstiti Iggy ha passato i 70.

Degli Stooges originari non è rimasto quasi niente, il r’n’r sembra una reliquia da museo, mercatino delle pulci o rievocazioni vintage, le mode stravolgono il senso storico delle cose e appiattiscono il valore delle persone, i concerti sono diventati improvvisamente pericolosissimi luoghi di assembramento da offrire in sacrificio alle psicosi collettive.

Quando comunichi che andrai ad un concerto devi sapere che chi t’ascolta sta già vedendo le scene strazianti dell’attentato che rotolano in sovraimpressione.

Per la gioia dimessa di governi che ad ogni nuova paranoia ci soffiano via un altro pezzo di libertà, magari anche con la nostra sentita gratitudine.

Ma oggi come allora può essere l’ultima occasione di partecipare a quello spettacolo unico che è un concerto di Iggy. E allora che si rassegnino la psicosi attentati e il terrorismo istituzionale delle misure di sicurezza, i tempi ristretti e gli impegni di lavoro che ti circondano minacciosi, i costi e quel vago timore di rimanere deluso nel vedere un vecchietto che si ridicolizza a far la parodia di se’ giovane.

 

Di nuovo in macchina, di nuovo a macinare chilometri e risate.

La dove c’era l’Atlante stradale ora c’è un navigatore petulante, là dove c’era una macchina fotografica usa e getta ora c’è un arsenale da reportage, là dove c’erano i cd ci sono gli mp3, là dove si schiacciava un pisolino incastrati tra i sedili ora c’è un comodo b&b di quart’ordine.

Tutto cambiato, tranne l’essenziale.

Bari ci accoglie cauta ma ottimista, l’aperitivo è rivedibile, il servizio d’ordine lento ma tutto sommato poco invadente e anche cordiale.

Siamo in gabbia, senza nessuna intenzione di uscirne.

C’è un po’ di tutto: dai coetanei di Iggy emozionati come adolescenti ai teenagers veri un po’ smarriti nel vedersi in minoranza ad un concerto, dai cinquantenni in tutte le salse – solitari e in coppia, con famiglia al seguito e in comitiva – ai ventenni sfattoni che ciondolano nella loro gloriosa ostentazione di decadenza fino al nucleo forte dei trenta-quarantenni in tensione perplessa tra lo scatenamento old style e la paura degli acciacchi, tra il desiderio di apnea nel cuore della calca e il sorriso sornione a distanza di sicurezza.

 

Il gruppo spalla ha l’ingrato compito di ingannare l’attesa, tollerato con indifferenza e quasi fastidio mentre si comincia a guadagnare posizioni utili nella bolgia che si va disponendo sotto il palco.

Il gruppo spalla smamma senza rancore e l’attesa diventa febbrile, palpabile l’emozione, notevole il livello alcolico, fumose le percezioni.

C’è sete di vita!

Il brusio prima della tempesta, le luci segnalano che qualcosa sta accadendo, un amplificatore si lascia sfuggire un sibilo…

E nell’abbraccio elettrico della piazza, entra in scena Iggy, jeans attillati e petto nudo d’ordinanza; è un po’ sciancato, la pelle sempre più increspata – non dimentichiamo che abbiamo a che fare con un settantenne dal passato turbolento- ma non c’è movimento, gesto, pausa che non sia da leader assoluto.

Il carisma che emana da quel mocio biondo che ha ancora inossidabile sulla testa è qualcosa di unico, e trascina chi lo adora quanto chi non lo aveva mai sentito nominare prima.

Il dubbio di trovarsi davanti una replica rincoglionita e finta del guru del punk non sopravvive alla sua apparizione.

I wanna be your dog è un interruttore, è come sollevare il coperchio di qualcosa che ribolle, i bicchieri volano via all’unisono creando una pioggia di vino e birra; ci si disperde trascinati in tutte le direzioni da onde e risacche incontenibili, si cade e si viene rialzati, ci si calpesta e ci si abbraccia, si lievita e si barcolla, si ascolta in estasi e si urla invasati, ci si perde e ci si ritrova in un’atmosfera di lirismo punk, dove la nostalgia e la rabbia si confondono nell’armonia di una musica che graffia e ruggisce, accarezza ed eccita.

E’ difficile rievocare quel mix di sudori e dolori, gioia e catarsi, piacere individuale e allegria di massa (“Oh quanto è corto il dire e come fioco al mio concetto!” direbbe Dante davanti al suo dio)

Forse c’è bisogno di un po’ di tempo per riguardare il tutto dalla giusta distanza e assimilare con calma sensazioni e ricordi ancora frastornati.

Di certo se Iggy chiamasse ancora, prima di andare a bussare alle porte dell’Inferno, ancora saremmo pronti a metterci in macchina, viaggiatori, cantando lalalala lalalala!!!, per andare a rendere omaggio ad un monumento vivente.

E con lui, in un certo senso, a rendere omaggio a noi stessi!

 

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