Il mio primo viaggio fu Pinocchio. Un viaggio di sola andata verso un’età che ancora ignoravo di avere, in un paese che era Italia, ma che ancora non sapevo bene che lingua parlasse. Fu un regalo di nonna, un modo per tenermi a briglia in quei giorni di fine scuola, terza elementare. Ci preparavamo a partire per il suo paese di Bassaspromonte, una manciata di case frantoi fontane, in mezzo agli ulivi. Nonna non era felice di questo ritorno, aveva una faccia da esilio: mia madre doveva partorire a giorni, ma qualcosa lì dentro, in pancia, intendo, non funzionava bene: i due gemelli di cui era in attesa davano pedate nuove e strane, una furia di sopravvivenza. Ci pensavo, doveva essere una rabbia veramente forte, come gli strattoni improvvisi che dava il treno correndo sulla linea di costa: sfiatava diesel e scalciava sui binari.

“È così, come il treno, che succede dentro la pancia di mamma?”.

“Ma che ti viene in mente? ”. Nonna alzò gli occhi dalla collezione di santini crocifissi redentori madonne che pregava incessantemente, con un ordine e una logica misteriosi. “Invece di pensare alle fesserie, dici una preghierina con me”.

“Non posso”.

“Cosa non puoi?”.

“Ho promesso che non prego fino a quando mamma non sta bene”.

“Ma tu per questo devi pregare, per farla stare bene e che partorisce senza problemi”.

“Ho promesso che non prego. Non mi va di approfittare ora che ho bisogno. Pregherò dopo, quando sarà tutto a posto, per ringraziare”.

“ Tu non sei giusto di testa”. E una carezza, però.

Non aggiunsi che, anche a volerlo, non potevo pregare: ero sprovvisto di angelo custode: l’avevo lasciato a casa, a vegliare su ogni cosa.

Andavamo al paese di nonna perché mio padre e mia madre non avessero l’urgenza di badare anche a me, in quei giorni.  Nonna s’era impegnata ad accompagnarmi al paese, restare con me un po’, ché tutto andasse bene, e poi lasciarmi alle sue sorelle, prozie che mi volevano un gran bene, ma dai modi spicci e con una linea di baffi da  carabinieri a riposo.

Mi sembrava che su quel treno di fondo Italia, nonna sudasse via tutta la tensione: c’era un caldo da estate matura, mancava l’aria. Io cavalcavo qualche cavallo purosangue sui sedili, sfuggivo agli indiani, correvo a fianco dei binari, a velocità di locomotiva. Insomma, mettevo il nervoso.

“ Non hai il libro? Non l’hai portato?”.

Lasciai andare sparatorie praterie saloon. “ Certo, eccolo qui”.

Fu in braccio al corpo grande e caldo di nonna che scoprii che poteva anche non esserci un re al principio di una storia, ma un pezzo di legno. Davanti alle paure di Mastro Ciliegia e ai sussulti di quel ciocco vivente io stavo al sicuro, stretto a nonna, un lettore cucciolo in una calda cuccia viaggiante. Da allora in poi non c’è libro che non mi ricordi quella accoglienza, quell’odore senza aggettivi.

Ero io a leggere, ad alta voce, senza segno col dito. Nonna seguiva, ogni tanto domandava. “ Visto che succede? Ti piace? E ora che è capitato?”.  Parlava a me, ma era un modo per fermarsi ogni tanto e fare ordine. La lingua di Pinocchio aveva una musicalità nuova, pareva fatta d’aria. Suonava diversa, quella lingua, metteva il disturbo che dà il silenzio, quando uno è troppo abituato al rumore.

Fu la stessa sorpresa attenta che si poteva respirare più tardi al paese. Al circolo delle carte portai  il mio Pinocchio: nelle  brevi vacanze in quel nido di mezza montagna i grandi mi avevano riempito di storie di boschi, di donne  e di emigrazione. Adesso potevo ricambiare. Nonna mi aveva affidato alle sue sorelle e a Zio Pepe, che zio non era per niente, ma lo diventava per quelle parentele d’affetto che abitano i paesi. Lui mi aveva portato al circolo.

“ Almeno non imparare nuove male parole”, disse nonna prima di andarsene. Lo sguardo di Pepe le disse che le avrei imparate.

“ Ci sono storie di femmine, lì dentro?”.

“ Lascialo stare, al figghiòlo”.

“ Perché, bisogna che impara subito”.

“ Lascialo stare. Leggi, leggi”, disse Zio Pepe.

E cominciai. “ Ma davvero c’è scritto questo? Davvero si dice così?”.  C’era un altro modo di dire le cose, che non il nostro dialetto duro, impastato con la terra.

“ Io la storia la conosco”.

“ Sì, ma non la sai leggere, ascolta”. Uomini antichi che conoscevano poco il mistero di quei segni che diventavano parole. Giusto la firma, ogni tanto, e quel che serviva leggere quando arrivavano le elezioni e si doveva esser presi in giro. Il resto erano preghiere da femminucce.

Pepe, in particolare, aveva pure attraversato l’oceano e aveva fatto il sangue triste  all’America, prima di tornare. Ora pretendeva che ci fosse silenzio, forse cercava parole nuove per descrivere la nostalgia. E l’attenzione c’era. Io al centro, col libro sulle gambe, i grandi intorno. Una scena da Gesù al tempio.

Pinocchio si muoveva lì davanti. Il circolo delle carte diventò l’Osteria del Gambero Rosso. E guarda Mangiafoco come somiglia al Sindaco!; ma tu lo pensavi che il gatto e la volpe erano tanto carogne?; aspetta, aspetta, vediamo che succede; e l’abbecedario, grazie che l’ha dato via, che ci doveva fare?, figure e lettere, erano; e ti ricordi la purga?, e lo zucchero prima, per chi ce lo aveva; guarda tu che non si può solo urlare, ma pure berciare; berciare è una buona parola: vuoi mettere che vado da quelli che mi hanno espropriato la terra e invece di urlare, bercio, si mettono paura, sicuro; hai visto come crescono i soldi, perchè non li pianti?; crescono, minchia, se crescono; e parla pulito che c’è il figghiòlo; scusate. Si andava avanti così, imparando una storia, che, saputa o non saputa, in quel modo diventava viva.

C’erano parole che agivano, lì dentro, e non avevano bisogno di dizionario.

Poi non mi presentai alla lettura pomeridiana. Non fu tradimento. Avevo bisogno di restare un po’ nella pancia del grande pesce: custodito in quella placenta dondolante, accompagnavo la preparazione ad un parto che ancora non era avvenuto. Alla fonda, con un lumicino  nel traffico d’oggetti che il pesce aveva trangugiato, cercavo il mio spazio, chiedevo aria. Fu il mio modo di accompagnare il parto di mamma, la mia preghiera. E portò bene.

Infatti tornò nonna. E ci preparammo in fretta al ritorno.  Salutai tutti con la serietà adulta che ci mettono i bambini:  uno per uno, gli amici della compagnia del Gambero Rosso. “ Promettimi che torni a leggere il resto”, disse Pepe.

“ Ti lascio il libro, lo continuate voi”.

“ Non funziona, ormai Pinocchio ha la tua voce”.

“ Promesso”. E credevo che avrei mantenuto.

“ Devo tornare”, dissi a nonna.

“ Per adesso andiamo a casa”. Sulla corriera, lungo la strada di curve che portava alla ferrovia il mare si faceva spazio: scendevamo alla costa, ero uscito dal ventre del pesce e avevo promesso che sarei tornato a leggere il seguito.

Promessa da Pinocchio alla stagione del naso lungo, chè ripresi il mio angelo custode, tornai alla preghiera, pensai a farmi spazio in una famiglia più numerosa. E lasciai Pepe con il racconto incompiuto.

Poi lessi l’indugio di Paolo che innamora Francesca, i ritorni eterni di Ulisse, le fughe di Tolstoj, gli occhi di Bovary…Libri libri libri. E sempre quel Pinocchio a mezzo,  un volto che non era cresciuto.

Quindici anni dopo non ero più un ciocco di legno, ma non ancora un uomo. Facevo ordine tra le cose, preparavo i bagagli essenziali di noi emigranti in incubazione, andavo a studiare fuori. Provai in anticipo la nostalgia nera di Pepe all’America. Fu l’urgenza sciocca e definitiva dei vent’anni: presi il libro di Pinocchio e guidai fino al paese. Bussai alla porta di Pepe. Mi aprì e forse non mi riconobbe: i vecchi hanno bisogno di mettere a fuoco il tempo. Sentii che quegli occhi asciutti mi attraversavano, scoprivano le buche di Campo dei Miracoli, protestavano alle leggi di Acchiappacitrulli, levavano il guinzaglio a Pinocchio e lo facevano libero, acceleravano i passi della lumaca e tornavano lì, presenti, mi riconoscevano.

“ Sei tornato a leggere il resto della storia?”.

Mostrai il libro.

Un segno del capo, entra. Un bicchiere di rosso ciascuno. Null’altro da aggiungere. Nelle Avventure di Pinocchio c’era il ritratto dei nostri volti di prima e di adesso. E le parole esatte per quella attesa di anni.

 

*Questo racconto, scritto per Pietre di Scarto,  è stato pubblicato nel 2012 da Città del Sole editore.

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