Ho conosciuto Sara Manisera nell’autunno di ormai 10 anni fa: ci siamo incontrati per la prima volta nelle campagne di Rosarno, dove ha lavorato per alcuni mesi ad una ricerca sul campo sul tema del caporalato e dello sfruttamento della manodopera immigrata nell’agricoltura, raccontando le contiguità di queste dinamiche con il radicato fenomeno mafioso che drammaticamente insiste sul territorio.

Da allora, al netto di una solidissima amicizia coltivata a distanza, ho seguito Sara per lo più attraverso i suoi lavori – inchieste e reportage di gran pregio giornalistico e letterario -, illuminanti sprazzi di luce su alcuni dei luoghi più caldi della nostra attualità: i sanguinosi conflitti in Iraq e Siria, le inquietudini del nord-Africa e di un mondo arabo scosso dalle opposte tensioni di una giovane società civile globale e democratica e il brutale conservatorismo dei centri di potere e degli apparati, i Balcani alle prese con la difficile, forse mai risolta eredità degli opposti sciovinismi e della guerra civile. E infine, chiaramente, l’Italia con le sue periferie, urbane e rurali. Il tutto, indagato con una sensibilità non comune verso i temi dei rapporti di genere, della questione ambientale, delle migrazioni e delle esigenze e vivacità della società civile, con uno sguardo sempre attento a cogliere le cause prime e le dinamiche profonde di grandi fenomeni transazionali e di portata epocale.

E’ con enorme piacere che ho quindi accolto e letto la sua prima pubblicazione monografica, “Racconti di schiavitù e lotta dalle campagne”, nella quale ho peraltro ritrovato – tra le altre cose – immagini e luoghi, situazioni e parole di quell’autunno nella Rosarno di tanti anni fa.

 

Il volume (Aut Aut Edizioni, Palermo 2019, pp. 174), il cui taglio narrativo si coniuga felicemente con la riflessione storico-politica e un meditato impiego delle fonti orali, è un reportage – di fatto, il racconto di <<un viaggio scandito dall’alternarsi delle stagioni>> – sull’altra faccia, quella meno visibile e percepita, del sistema dell’agroindustria.

Da dove viene tutta la frutta e la verdura di cui abbondano i nostri supermercati? Dove è prodotta, e come? Perché costa così poco? Da chi è raccolta e trasportata? E soprattutto, quali i costi – ambientali e umani – di un sistema che, di fatto, vede i primi 5 grandi distributori detenere la maggioranza assoluta delle quote di mercato?

Sono queste alcune delle domande che muovono il lavoro di Sara Manisera, la cui penna ci accompagna nei luoghi – sulla terra – ove quello che mangiamo è coltivato, e ci riporta le voci – la più parte, sommerse, mai ascoltate – di chi quei prodotti raccoglie e lavora, trasporta, confeziona.

Dalla Puglia a Rosarno, da Saluzzo alla Basilicata, è un coro di braccia e mani invisibili – <<storie di vita reale>> – che dà forma e sostanza alla narrazione. Sullo sfondo, baracche e alloggi di fortuna, lo sgradevole corredo tangibile della permanente precarietà esistenziale cui sono condannati i nuovi schiavi dell’agroindustria; campi sterminati, sull’orizzonte omogeneo e uniforme della monocoltura; la terra esausta per lo sfruttamento intensivo e l’impiego massivo di prodotti chimici.

Il tutto, sapientemente intrecciato al racconto di altre migrazioni, a noi più lontane nel tempo ma più prossime nei percorsi biografici e nelle memorie: quelle dei nostri nonni e bisnonni, migrati a loro volta in terre lontane, ingranaggi umani di meccanismi simili a quelli di oggi nelle tristi dinamiche di sfruttamento e degradazione.

Con le parole dell’autrice, questo è un libro che <<non ha la presunzione di dare risposte>>: resta un libro che interroga, e potentemente – forte anche di un notevole spessore letterario – le pieghe e i risvolti più ignoti o celati del nostro presente di benessere, dei suoi modelli di sviluppo e consumo, del suo rapporto con l’ambiente e i diritti delle generazioni future.

Più che una recensione, non ho potuto che farne un invito alla lettura.

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