“Se te ne vai, chi resterà? La tua terra morirà…” (Canto della route regionale dei capi Agesci, 1976)

 

Lo slogan di quel campo era “Lottare per restare, restare per costruire” e ispirò molti giovani che, con grande slancio e passione, scelsero di restare in Calabria e di impegnarsi. Io, appena adolescente, lo interiorizzai, lo feci diventare mio. Anch’io sono rimasto. Non solo. Se è vero che l’educazione è anche “fare eco”, cioè donare agli altri quello che si è ricevuto, quando a mia volta sono diventato educatore, ho provato a trasmetterlo ai ragazzi e alle ragazze che ho incontrato. Come educatore e come insegnante. Da qualche anno ho smesso. L’alibi che mi sono creato per giustificare il “tradimento” di questa eredità è la convinzione che il mondo è la nostra casa e tutti hanno il diritto e il dovere di vivere e realizzarsi dove meglio è possibile. In realtà, spesso mi ritrovo a credere che questa terra sia senza speranza, senza possibilità. La stessa sensazione che ho provato nei miei tanti viaggi in Africa, terra bellissima ma depredata e devastata.

In questi giorni in famiglia si è riacceso il dibattito, alimentato dai rientri temporanei dei nipoti e dalle loro osservazioni su come  hanno ritrovato la città rispetto all’ultima volta che ci sono stati e rinfocolato dal recente articolo “la città sospesa”, uscito su Repubblica. Il dibattito si fa più acceso quando i nipoti sono insieme ad amiche o amici del nord. Qualcuno, inevitabilmente, riprende le narrazioni dei miti: – qui avevamo Pitagora e Ibico da Reggio, e i Bronzi di Riace, la siderurgia dei Borboni, il tesoro del Banco di Napoli, si scia guardando il mare…-. Quasi che queste glorie del passato o questi doni della Natura (immeritati?) potessero assolvere la devastazione, l’incuria e l’abbandono di oggi. Semmai, queste (e molte altre) glorie del passato rappresentano un capo d’accusa e non delle giustificazioni. Memorie e tradizioni tradite. Basta documentarsi.

Per parte mia mi limiterò alle impressioni fidandomi di certo pensiero della filosofia e della psicologia che le definisce la fotografia più fedele della realtà. Nell’articolo “la città sospesa” si fa riferimento alle tante catastrofi dell’attualità: l’inefficienza della politica con amministratori inadeguati e incompetenti, alla sanità, alla giustizia, alla criminalità organizzata, all’arretratezza dei diversi settori economici. Si racconta anche di alcune esperienze positive (e guai se non ci fosse almeno qualche lucignolo acceso dalla determinazione, passione e competenza di tanti singoli cittadini e cittadine) e non se ne riportano tante altre. Le nostre periferie e i nostri quartieri sono completamente abbandonati a sé stessi. Anche qui, qualche esperienza positiva sopravvive grazie alla caparbietà e all’amore viscerale di qualche cittadino e cittadina. Io posso e voglio solo limitarmi a descrivere il crudele e vergognoso abbandono e degrado di quello che dovrebbe essere il “salotto buono” della città.

Provate a percorrere a piedi il tragitto che va dal Waterfront in zona porto fino all’area del Tempietto e agli impianti dell’università Mediterranea. E fatelo percorrendo prima il lungomare Falcomatà e poi la via Marina bassa, quella dei lidi. Se tenete alto lo sguardo (e vi turate il naso) sull’orizzonte, allora il panorama vi riempirà il cuore. Ma provate ad abbassarlo e annusate l’aria: rifiuti ovunque, che ti viene da pensare che sarà impossibile ripulire tutto, arredi urbani completamente devastati, erbacce che sommergono ogni cosa, il lastricato del lungomare orribilmente macchiato e deturpato dai liquidi di bevande varie il cui puzzo ammorba l’aria. Ovunque i resti delle serate di festa nei lidi, unica e discutibile offerta esistente nelle serate estive di Reggio Calabria. Un capitolo a parte richiederebbe il lido comunale. Nel guardare quelle macerie e quella distruzione, la disperazione raggiunge il suo culmine. Specialmente per chi come me ha avuto la fortuna di godere di quei luoghi come realtà di ritrovo, di festa, di aggregazione, di comunità per tutta la città di Reggio. Le sere d’estate il lido si animava di tutta la vivacità delle famiglie che si ritrovavano, dei giochi e degli scherzi dei ragazzi, degli amori degli adolescenti. Non poter utilizzare quei luoghi, non poter fare il bagno in quelle acque (anzi, doversi spostare di decine di chilometri per andare al mare, privilegio riservato a pochi) e non poter godere di un contesto unico che mezzo mondo ci invidierebbe, è davvero un crimine che grida vendetta. Per mancanza di opportunità, servizi, proposte culturali ed economiche, ogni anno sono migliaia i giovani che abbandonano la Calabria e la popolazione è sempre più costituita da anziani. Le cause sono tante ma la città devastata non solo sospesa, simbolicamente, le riassume tutte. Sembra quasi di rivivere quello che Leonida Repaci scrisse ne “Il giorno della Calabria”: <<Del breve sonno divino approfittò il diavolo per assegnare alla Calabriale calamità : le dominazioni, il terremoto, la malaria , il feudalesimo, la malaria, il latifondo, le alluvioni, la peronospora, la siccità l’analfabetismo, il punto d’onore, la gelosia, l’Onorata società, la vendetta, l’omertà, la falsa testimonianza, la miseria, l’emigrazione. Dopo le calamità, le necessità: la casa, la scuola, la strada, l’acqua, la luce, l’ospedale, il cimitero. Ad essa aggiunse il bisogno della giustizia, il bisogno della libertà, il bisogno della grandezza, il bisogno del nuovo, il bisogno del meglio. E, a questo punto, il diavolo si ritenne soddisfatto del suo lavoro, toccò a lui prender sonno, mentre si svegliava il Signore>>. Ho trovato sempre incoraggiante il modo in cui Repaci conclude questo brano: <<Quando aperti gli occhi, poté abbracciare in tutta la sua vastità la rovina recata alla creatura prediletta, Dio scaraventò con un gesto di collera il Maligno nei profondi abissi del cielo. Poi, lentamente, rasserenandosi disse: “Questi mali e questi bisogni sono ormai scatenati e devono seguire la loro parabola. Ma essi non impediranno alla Calabriadi essere come io l’ho voluta. La sua felicità sarà raggiunta con più dolore ecco tutto. “Utta a fa jornu c’a notti è fatta”. Può farsi giorno che la notte è passata. Una notte che contiene già l’albore del giorno>>.

In qualche modo questa conclusione mi ha sempre convinto e sostenuto e il mio, il nostro restare, mi ha sempre  convinto che la scelta di restare poteva diventare davvero una lotta per costruire. L’alba arriva, sta arrivando. Il farsi giorno dipende da noi. Con un’altra ulteriore consapevolezza: <<Calati juncu chi passa la china!>>. Un modo più antico e più forte di dire la resilienza che ero convinto facesse parte dell’indole meridionale: fantasia e caparbietà nel lottare per conquistare le cose perché al Sud si è addestrati a fare più fatica per ottenerle. Purtroppo oggi temo che le calamità siano aumentate o che si siano ripresentate in forme diverse e sempre più raffinate, maligne.

Anzi, che ogni giorno di più, se ne stia aggiungendo e si consolidi una davvero mortale: la Rassegnazione. Anch’essa può però avere diverse forme. Ce n’è persino una che è caratteristica dell’ottimista tragico, di colui che continua ad alimentare la speranza che pure “tra il seccume dei petali arda di vita il seme” o che “nell’inferno riconosce quello che inferno non è” e tenta di fargli spazio e riesce, pur nella devastazione, a credere che un mondo nuovo verrà e, dunque, continua ad impegnarsi nel silenzio e nella solitudine. Ma la rassegnazione che io vedo è diversa, è peggiore. È quella che ho visto anche negli sguardi sorridenti ma negli occhi tristi dei bimbi africani o nelle tante persone che ho incontrato camminando con il movimento politico “La Strada”. È  quella, molto più funesta che si genera dall’abitudine, dalla consuetudine consolidata che le cose vadano sempre così e sempre cosi andranno. Quella che con “La Strada”, tra mille difficoltà, isolati perfino da chi dovrebbe sostenerci, continuiamo a contrastare: la lotta è culturale, per questo difficile, per questo enorme. La rassegnazione che ti fa dire che “tanto sono tutti gli stessi e che nulla può cambiare” e che addirittura, anche davanti al’evidenza opposta (parlo ancora dell’operato determinato de La Strada) ti porta fino a rendere difficile la vita e a ridicolizzare chi continua a fare le cose caparbiamente perché mette in crisi e turba le tue convinzioni rassegnate. È  quella del quaranta per cento che non va più a votare perché tanto non serve a nulla, e così vanificando l’unica arma, insieme alla Costituzione, che può essere ancora veramente efficace. Come si può contrastare l’abitudine rassegnata? E, soprattutto, si può? Non so, non ne sono più così certo. Ecco perché queste mie considerazioni cominciano già dal titolo con una domanda pessimista. Se mai ci fosse una possibilità, questa sarebbe solamente quella di tornare a costruire comunità. Che le numerose solitudini degli ottimisti tragici, dei giunchi che si calano al passare della piena, si ritrovino e costruiscano un’altra narrazione, più potente della rassegnazione. Rarissime volte nella storia di questa terra martoriata è già successo. Forse può succedere ancora.

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