Orient Express 2014 207

 

di Domenico Quattrone

 

Con gli occhi sgranati guardavo la solerte impiegata delle ferrovie elleniche, mentre con timbro e penna compilava quel biglietto del treno. Vergare a mano un foglio e timbrarlo, vistarlo, validarlo…gesti quasi antichi, da impiegati di concetto, come soleva dirsi una volta, da polverosi burocrati di un tempo “analogico” che fu. Non avevo mai visto un biglietto del treno realizzato a mano, quasi con penna e calamaio, senza usare terminali e stampanti. E’ stato emozionante.

E il prodotto finito non deludeva certo le attese: quello che la bigliettaia della stazione ferroviaria di Salonicco, o se preferite Tessalonica – Macedonia centrale- Grecia, non era un biglietto anonimo e impersonale come tutti gli altri. Riportava scritte in greco e francese (ché già solo il pensare all’idioma d’Oltralpe come lingua franca fa tanto retrò) che facevano volare l’immaginario del viaggiatore che, come me, arrivava da Istanbul, al leggendario Orient Express.

D’altronde era quello per cui ero partito: ripercorrere il cammino dell’Orient Express, da Istanbul a Trieste, attraverso la Grecia prima e i Balcani poi, fino alla più Austro-ungarica (e slava) città d’Italia.

E’ stato facile e addirittura banale fantasticare di un “treno di lusso, lontana destinazione”, col quale attraversare in carrozza tutti i Balcani verso Belgrado, sorseggiando magari del té turco gentilmente offerto fra gli scompartimenti.

Caricato lo zaino sulle spalle e giunto sul binario, mi si è presentato davanti un treno scalcinato e sudicio come non si era mai visto prima, qualcosa da far apparire il famigerato Espresso Notte via Tropea un 7 stelle da emirato arabo: era quella la strada per i Balcani.

E’ davvero incredibile come attraversando la Grecia, un Greco d’occidente (o calabrese, a voi la scelta: si tratta di sinonimi) si senta a casa. Sembra di non avere mai abbandonato le colline aspre e brulle delle nostre latitudini. D’altronde la parentela ce l’abbiamo scritta in faccia oltre che sulla terra. E’ così, che lentamente ma piacevolmente, come lenti e piacevoli sono solo i pomeriggi d’agosto, si arriva al confine con la Macedonia.

Idomeni, recita lo scolorito cartello di quell’ultima scalcinata stazione della Macedonia greca (quella originale, tengono a dire i nostri fratelli). Il treno si ferma a lungo in questo posto senza tempo e dalle coordinate incerte e indistinte come tutte le terre di confine, sospeso nella canicola d’estate, vuoto, e senza prova di vita umana. Poi il treno riparte, lento e insicuro, attraversa un ponte su un piccolo fiume. Giusto il tempo di capire che il nome della prossima stazione è scritto in cirillico: Gevgelija.

Non si è più abituati, in Europa, ai controlli alla frontiera, sembra così strano che si debba tutti scendere dal treno e consegnare i passaporti a sbrigativi doganieri. Il tempo è lungo, lunghissimo, si dilata enormemente; nel caldo del tardo pomeriggio si scende dal treno, si cerca riparo all’ombra di una tettoia, si cerca il conforto dell’acqua o di un gelato venduti da un improvvisato ed abusivo barista: è il capostazione. Dopo, solo molto dopo, si riparte verso Skopje e verso Belgrado.

Non avrei mai creduto di rivedere Gevgelija. E invece era li, stampata sui giornali di tutto il mondo, esattamente un anno dopo, periferia estrema d’Europa per la prima volta protagonista inconsapevole e incolpevole di una immane tragedia. Di un nuovo Esodo. Terra di transito negato a chi sfugge dalla morte e dalla fame, a chi cerca vita e felicità. Le immagini di una stanca e lenta stazione di confine adesso erano state sostituite da immagini di disperazione, di lotta per la vita, di lacrime di urla e di sangue. Di uomini di donne e bambini che affollavano le pensiline un tempo immobili e deserte.

Attraversare un confine è strano: ci si fa magari le foto accanto ai ceppi o alle sbarre dei caselli, spesso fortunatamente in disuso, ma l’attraversamento forse è solo una suggestione. Sono ingannevoli i confini degli uomini, sono linee tracciate sulla carta che possono diventare barriere. Beati siano i costruttori di ponti, maledetti i costruttori di muri.

Idomeni-Gevgeljia d’altronde cosa cambia? l’alfabeto e poi? che strano… anche il fuso orario: due luoghi-non luoghi, identici a sé, eterni gemelli che si guardano dirimpetto ad un torrente. Fermi nel tempo, sempre nello stesso momento, eppure ad un ora di distanza. E non si raggiungono mai.

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