640px-Aspromonte_IMG_3461

 

di Elena Trunfio

“Non si può pensare un’architettura senza pensare alla gente”, scrive l’architetto Richard Rogers, vincitore nel 2007 del Pritzker Prize, il nobel dell’architettura. Un’affermazione che potrebbe suonare scontata ma sicuramente non banale. L’architettura non è un fine ma solo un mezzo, uno strumento funzionale alla creazione dei “luoghi”, cioè spazi in cui le persone costruiscono relazioni attraverso la cultura e la socialità. La progettazione di questi luoghi è quindi azione complessa che non può riguardare esclusivamente i tecnici e la sfera funzionale, ma dovrebbe tenere soprattutto conto dei bisogni, delle aspettative e dei sogni di coloro che andranno a riempire quello spazio di significati. Il condizionale è, purtroppo, ancora oggi d’obbligo e lo è ancora di più in una regione come la Calabria, dove gli architetti e gli urbanisti, incoraggiati da quei politicanti che hanno ben chiaro il significato propagandistico dell’architettura, sembrano aver dimenticato il senso del loro mestiere. Il medievista Carl Arnold Willemsen scrive nel 1990 Calabria. Destino di una terra di transito ripercorrendo le tappe della storia della regione che, “segnata dal succedersi di civiltà, da abbandoni e da ricostruzioni“, può sicuramente raccontare in maniera precisa la mobilità. La Calabria non è solo una terra di transito, ma è soprattutto una regione “in transito” in cui la mobilità non ammette esclusivamente lo spostamento delle persone, che potrebbe presagire cambiamento positivo e maggiori possibilità, ma è sinonimo soprattutto di spostamento di “luoghi”. E, se pensiamo ai luoghi come spazi complessi, ci si rende subito conto di come la mobilità di essi non può che rivelarsi un completo fallimento. Un termine quest’ultimo, che, nel caso  dei borghi dell’Area Grecanica di Reggio Calabria, dovrebbe essere sostituito con disastro. Accade infatti che negli anni ’70, in seguito a due tremende alluvioni, una serie di borghi grecanici vengano dichiarati discutibilmente inagibili, sfollati in maniera coatta e ricostruiti ex novo in luoghi altri ben lontani da quelli originari. Accade per esempio a Roghudi, borgo montano di struggente bellezza arroccato caparbiamente a un costone roccioso, che un’intera popolazione di pastori venga costretta a spostarsi in un nuovo centro costruito per l’occasione lungo la statale 106 a ridosso della costa. Accade che, nel 1981, si ricostruisca un nuovo centro su un’isola di terra circondata da qualche campo coltivato, dall’abusivismo e da un cimitero. La nuova Roghudi è un posto ben lontano dal più banale concetto di città e che ci appare come la brutta copia della San Francisco di Tim Burton in Big Eyes: isolati identici, blocchetti di abitazioni a schiera e qualche edificio pubblico, tutti caratterizzati da scarsa qualità estetica e tecnica. Si passa così dal microcosmo del paese storicizzato, dove le viuzze disordinate rappresentano il “luogo” della comunità, che proietta all’esterno della propria casa sentimenti e azioni, a un luogo estraneo in cui Palazzo Comunale, una scuola e un grande cinema, mai utilizzato, assurgono a centri focali per la costruzione di una nuova normalità. Ma Roghudi Nuovo è un posto che di normale non ha proprio nulla e in cui persino le panchine sono piantate dove meno te le aspetti: in un paese sul mare è tutto costruito guardando la montagna nell’estenuante e continua ricerca di un rapporto con quello che è stato e che mai più sarà. Il nuovo centro ricostruito è rifiutato dai suoi stessi abitanti che preferiscono spostarsi a Reggio Calabria piuttosto che vivere lì, dove, senza troppo impegno, si è tentato di ricostruire l’armonia sociale del vecchio borgo, con lo scopo di ammaliare e camuffare la reale motivazione dello sfollamento e della ricostruzione: la speculazione edilizia. Tuttavia anche qui si è tenuto fede all’affermazione di Roger, ma interpretandola in maniera originale, come spesso accade. E allora anche queste architetture sono state, di fatto, progettate pensando alle persone: ma solo ad alcune persone. Quelle persone il cui bisogno di arricchirsi è andato oltre qualsiasi etica morale e professionale, distruggendo un popolo, abbandonando un borgo e creando un nuovo agglomerato costruito che con l’architettura, quella vera, non ha nulla da condividere.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here