di Pietro Barabino

Giuseppe Sergi è la memoria storica di Rosarno, un paese in provincia di Reggio Calabria. Militante del Pci e consigliere comunale di minoranza per 25 anni, da oltre mezzo secolo si guadagna da vivere aggiustando biciclette nella sua officina di via Mesina. Dove, a chi non ha soldi per pagare, quasi sempre i braccianti africani che lavorano nei campi di arance, ­aggiusta le biciclette gratuitamente.

L’economia di Rosarno si è sempre basata sull’agricoltura. “Una volta c’era un’organizzazione meravigliosa. Ricordo che i lavoratori facevano degli scioperi con il partito e i sindacati, erano grandiosi. Partecipavano tutti, erano momenti di unione e con quelle lotte abbiamo ottenuto tanto, nel Dopoguerra abbiamo strappato con la resistenza la terra ai latifondisti restituendo le terre ai contadini. Nessuno guardava al proprio tornaconto personale, l’importante era ottenere dei miglioramenti collettivi”, racconta.

L’ultimo sciopero, a Rosarno, è quello del gennaio 2010, poi sfociato in rivolta, quando i braccianti africani si sono ribellati agli abusi del sistema di caporalato. Suleman Diara, che oggi vive e lavora a Roma producendo yogurt con la cooperativa Barikamà, ricorda quei giorni: “Ho lavorato a Foggia, poi sono stato a Rosarno un anno, dopo la rivolta del 2010 ci hanno portato via sui pullman della polizia. Rivendicavamo diritti contro chi ci sfruttava, hanno risolto la questione spargendoci per l’Italia e risolvendo così l’emergenza”.

Dopo sei anni la situazione a Rosarno è sempre uguale, anzi, oltre alle pessime condizioni di vita, il lavoro, anche a giornata, è scarso, e trovare un contratto, condizione necessaria per rinnovare il permesso, è un miraggio.

Tuttavia, resta difficile dimostrare lo sfruttamento: “A Rosarno, come a Foggia e in tanti altri luoghi dove avviene lo sfruttamento del lavoro schiavizzato sui campi, lavoriamo tutti senza contratto. Ogni tanto qualcuno muore, ma è difficile anche dimostrare che è morto sul lavoro”.

La differenza è che ai suoi tempi i lavoratori non erano lasciati a se stessi, venivano organizzati dal Pci e dai sindacati. “Oggi non esiste un partito che difende i lavoratori, e il sindacato non funziona. Strumentalizzano i nostri problemi per le loro campagne elettorali, ma non c’è nessun politico che si interessa davvero a risolvere il vero problema: perché queste arance a 5 centesimi? Perché questi mandarini a 10 cent o 15 cent? Tutti parlano ma nessuno fa nulla. Il mese scorso sono venuti a dire che avrebbero risolto tutti i problemi abitativi: siete andati alla tendopoli di San Ferdinando, a pochi chilometri da Rosarno, avete visto in che condizioni vivono? È manodopera schiavizzata di un mercato ammazzato dai prezzi imposti dalle multinazionali che acquistano le arance a prezzi insignificanti (ieri Fanta, oggi San Pellegrino), ma non interessa a nessuno: ognuno bada ai cazzi suoi. Sindaci, vicesindaci che si vendono”.

Certo, ci sono esperienze positive e datori di lavoro corretti, alcuni sopravvivono grazie alla rete dei Gruppi di Acquisto Solidale ma non sono soluzioni radicali per tutti, permettono solo ad alcuni di andare avanti, a stenti. “Che fare?”, si chiede Peppe Sergi, da vecchio militante comunista. E si risponde con la più classica delle utopie: “Se solo avessimo una sinistra unita, una sinistra­ sinistra. Però ci vuole serietà. Se non c’è serietà, non si va da nessuna parte”.

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