IMG_20151123_184607

di Dominella Trunfio

A vent’anni sei giovane, sei uno spirito libero e pensi solo alle serate con gli amici. Non pensi mai, invece, che la tua vita può cambiare in un attimo, nello stesso momento in cui si chiude a chiave una porta dietro di te e se ne apre un’altra. A quel punto, ti rendi conto che è finita, che non c’hai più niente da perdere”.

Lo scorso Natale è stato il primo – dopo sei lunghi anni – che Vanessa Z. ha passato assieme alla sua famiglia, oggi ha 26 anni e ha appena finito di scontare una pesante condanna, da giugno le porte di Rebibbia si sono chiuse dietro di lei e l’ebbrezza della libertà l’ha riassaporata con una fuga al mare. “Una delle cose che mi è mancata di più e a cui pensavo ogni sera quando alle otto la nostra vita si spegneva. Un dolore fisico che non riesco neanche a descrivere”.

Secondo i dati del Ministero della Giustizia, aggiornati al 30 novembre, sono 52.636 i detenuti nelle carceri italiane, tra questi 2.150 sono donne, è la Lombardia ad avere il più alto numero: 7.675 di cui 373 donne, a seguire la Campania con 6784 e 338 detenute.

Ho ricordi vaghi del primo periodo soprattutto perché avevo fatto uso di droghe. Ripensandoci è come se fossi indemoniata e non mi sentissi più parte del mondo. All’inizio non sai mai quanti anni dovrai scontare ma forse questo nel mio caso questo mi ha aiutato a non deprimermi”.

Il processo che condanna la donna a 8 anni di reclusione dura 4 anni, grazie alla buona condotta riesce a uscire in 6. “Quando me l’hanno comunicato in realtà, mi sono resa conto che il peggio era passato e solo due anni mi separavano dal ritorno alla normalità”.

Le detenute come Vanessa possono decidere in che modo affrontare le giornate che scorrono scandite da orari lenti in celle due metri per tre con un letto, un lavandino e una piastra da cucina. “Nel 2009 la situazione in carcere non era delle migliori: è vero siamo in galera, siamo criminali, abbiamo sbagliato, ci tocca pagare ma garantiteci dei diritti. Non c’era l’acqua calda e perfino la tazza del bagno era così lurida che in un anno e mezzo, ho avuto tutte le malattie possibili dai condilomi alle emorroidi fino all’alopecia. E’ stato un inferno”.

Nel frattempo, nel gennaio 2013 la Corte europea dei diritti umani condanna sette carceri italiane per trattamento inumano e degradante, dando un anno di tempo all’Italia per rimediare alla situazione e garantire ai detenuti uno spazio di almeno 4 metri quadrati, sufficientemente illuminato e pulito, assicurare attività sociali e un buon numero di ore fuori dalla cella.

Il percorso carcerario di Vanessa inizia con 50 giorni di isolamento e un anno passato tra colloqui con assistenti sociali, psicologi e un lungo processo di disintossicazione. “Potevo scegliere – dice – di stare sempre in cella a guardare la televisione, a fumare un’intera stecca di sigarette, a giocare a carte e di far passare le mie giornate così, come se non m’importasse più di vivere. Invece, ho deciso di reagire: avevo sbagliato e dovevo pagare ma, almeno da quella situazione, dovevo riuscire a prendere il meno peggio possibile”.

La seconda strada la porta a iscriversi innanzitutto a scuola. “Con gli anni ho preso il diploma e ho frequentato una serie di corsi in carcere, fra cui quello di parrucchiera, di informatica e di pallavolo, riscoprendo così l’amore nel fare delle cose diverse, che mi aprissero magari nuove prospettive una volta uscita”.

Vanessa partecipa anche al progetto fotografico di Mauro Rosatelli e Claudio Laconi di Mixzone dal titolo Fascino oltre le sbarre – La creatività delle donne di Rebibbia, diventando modella per un giorno insieme ad altre detenute. Il suo viso incorniciato dai capelli lunghi e biondi e il suo corpo fasciato dagli abiti realizzati dal laboratorio Ricuciamo interno al penitenziario è tra gli scatti di un calendario di 24 mesi, il cui ricavato dalla vendita è interamente destinato a migliorare le condizioni dei detenuti.

Una ventata di normalità in una vita che inizia alle 6.30 e finisce alle 20.00, orario in cui i giri di chiave serrano le celle. Si pranza all’una e si cena alle 16.30 perché le cucine vengono chiuse alle 18.00. “Le cuoche – spiega Vanessa – sono altre detenute, a ognuna di noi può essere affidata una mansione”. L’articolo 15 della legge 26 luglio 1975 n. 354 che regola l’ordinamento penitenziario individua, infatti, il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo stabilendo che al condannato e all’internato sia assicurata un’occupazione lavorativa. Secondo i dati ministeriali aggiornati al 30 giugno 2015, sono 14.570 i detenuti che lavorano, di cui 832 donne.

Per circa 6 mesi nel 2013, Vanessa ha la fortuna di essere tra le 17 detenute che riescono a far uscire la propria voce fuori dai muri del carcere, grazie a un progetto che vede la realizzazione di un call center all’interno del penitenziario, gestito dalla cooperativa sociale Alternative. “Ho fatto un vero e proprio colloquio, l’ho superato e ho iniziato a lavorare ogni giorno con una retribuzione di circa 500 euro. Ma l’esperimento non è durato molto”.

Salutata l’idea di un lavoro “normale” siglato nero su bianco in un protocollo d’intesa sottoscritto dall’allora Garante dei Detenuti del Lazio, Angiolo Marroni insieme con l’ex direttrice di Rebibbia Lucia Zainaghi e il presidente della cooperativa sociale “Alternative” Gianni Fulvi, a Vanessa viene assegnato il lavoro di pulizie e servizio mensa in carcere. “La cosiddetta scopina, un lavoro jolly che ti spezzetta i ritmi della giornata: colazione, pane e frutta, pranzo, spazzatura e cena”. Quando non lavora, l’ex detenuta prende un caffè con quella che con il tempo è diventata la sua comitiva.

Le giornate – continua – sono tutte uguali e le feste sono odiate perché il tempo scorre lento, in qualche modo perciò devi fartele passare creandoti delle “amicizie”, secondo una regola non scritta, ovvero amica di tutti e amica di nessuno”. Fra quattro mura anche i rapporti sono amplificati, a volte esasperati perché, basta una maglietta nuova per creare invidia.

Ci sono voluti tre anni prima che Vanessa ricevesse una parola di conforto o un abbraccio da un’altra detenuta, un po’ perché all’inizio pur essendo la più giovane, a causa della sua condanna “non aveva una buona reputazione”, un po’ perché “è difficile capire se fidarsi o meno di qualcuna”. Quel che è certo è che “c’è solidarietà ma più che altro, diventa quasi un dovere aiutare l’altra, quelle stesse persone con cui cerchi di ricreare un ambiente domestico, un’alternativa di famiglia e lo fai parlando, guardando la televisione assieme, giocando a carte, andando in biblioteca”.

Dopo un anno sabatico, sempre da reclusa, decide di iscriversi al Dams riuscendo a passare tre esami ma una volta uscita l’idea dell’università viene accantonata. “In questo momento ho altre priorità, mi sento parecchio cambiata, devo ricominciare tutto daccapo ma esigo il mio posto nella società”. Un posto che la donna non ha ancora trovato perché “in carcere vivi protetta, in un ambiente ovattato poi esci e ti rendi conto che se non c’è qualcuno che ti indirizza, rischi di aver buttato tutto il percorso fatto dentro”.

Oggi Vanessa pur definendosi una sognatrice si sente disillusa. “Per tanti aspetti stavo meglio in carcere adesso forse, non ho più quella serenità. Ti rendi conto che le persone e la tua città sono cambiate e che anche tu, con una fedina penale sporca non puoi essere la stessa ragazza di prima”.

Quando vedevo tante ragazze che dopo poco tempo erano di nuovo dentro pensavo fossero matte, adesso le capisco, a volte se non hai una guida diventa una galera anche stare in libertà. Io mi sento fortunata perché ho la mia famiglia ma tante persone da sole non ce la fanno. La società aiuta poco nel reinserimento e adesso mi sento impotente. Quando uno entra in carcere si dice: puzzi di libertà ma ora che sono uscita puzzo di galera”.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here