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di Alessio Magro –    

Nelle carte deontologiche dei giornalisti si legge un interessante principio: nel raccontare eventi e manifestazioni antimafia occorre sempre dare risalto agli aspetti positivi e non a quelli negativi, come ad esempio un’eventuale scarsa partecipazione. La ratio dell’imperativo etico trova fondamento su un assunto semplice, che però ai più sfugge: se la gente fosse consapevole e partecipe allora le mafie non esisterebbero, o comunque non sarebbero quel che sono oggi. In altre parole, essendo scontato che, fosse solo per indifferenza e/o paura, la mafia gode del consenso e al contrario la strada dell’antimafia è in salita, ai giornalisti responsabili toccherebbe il compito di aiutare chi sta dalla parte giusta.

Nella pratica si assiste al rovesciamento della deontologia: si fa a gara a sbattere in prima pagina il mostro che specula sui fondi pubblici dell’antimafia, con il risultato di minare la credibilità del movimento tutto, che in effetti anche per responsabilità proprie oggi non esiste quasi più. Un’impalcatura costruita con grande fatica negli ultimi venti anni sta crollando pezzo dopo pezzo, mentre sulla TV pubblica in prima serata si dà la parola, e con questa la piena legittimazione, ai figli dei boss. C’è della malafede? Non può essere altrimenti, qualcuno ci sta marciando sopra. Ma non tutti. Accade ciò che HannahArendt ha ben illustrato nel concetto di “banalità del male”: i criteri attuali della notiziabilità impongono determinati schemi, i giornalisti hanno imparato a seguirli senza porsi troppe domande, i cittadini assorbono le notizie senza mai metterle in discussione. Così un titolo di giornale è già una sentenza.

Dai ragazzi di Locri alle fiction di grido sugli eroi-criminali, c’è una voglia spasmodica di creare il personaggio, reale o immaginario che sia. Al di là delle qualità e dei meriti personali e del valore artistico delle opere, il meccanismo della mitizzazione non fa altro che semplificare all’inverosimile, annullando una lettura critica dei fenomeni. Tagliato con l’accetta, è questo il concetto espresso dal noto e argutissimo sociologo Alessandro Dal Lago, quasi l’unico a porre un altolà alla santificazione in vita dell’iper-personaggio Saviano. Sembra che anche il giornalismo abbia sposato gli schemi comunicativi della De Filippi e dei reality. Alla beatificazione segue spesso, al primo inciampo, la demolizione via etere. Come se la lotta alle mafie si facesse con le nomination e il voto da casa.

C’è di più. In una società che non ha più strumenti di analisi della realtà, la notizia non è il principio di una riflessione autonoma, ma una “verità” eterodiretta. Il funzionamento della macchina del fango è notorio, e non è il caso di spiegarlo: ormai solo chi non vuol vedere non si accorge di quanto sia prezzolata la semplificazione mediatica delle vicende giudiziarie. La stampa diventa così un potentissimo strumento di ricatto: che sia corrotto o meno, che esista o meno un’indagine sul tuo conto, l’importante è che il tuo nome non compaia sul giornale e il tuo viso in TV. L’arte raffinatissima di cui stiamo parlando è quella del killeraggio mediatico.

Allora che senso hanno le puntuali inchieste giornalistiche sugli scandali del momento? Limitandoci ai servizi che rientrano nello schema dello schizzo a orologeria, purtroppo tanti, e lasciando da parte le cronache a regola d’arte, sempre meno, sembra che la frenesia bulimica dei titoli a nove colonne sia uno strumento affilato di un gioco grande, uno scontro tra poteri che stritola chi sta nel mezzo. Che senso abbia tutto ciò andrebbe domandato al magistrato o al funzionario delle forze dell’ordine che passa le carte, proprie o altrui: occorre sempre tenerlo a mente, ogni volta che si legge di un’inchiesta in corso, c’è un inquirente che ha infilato una velina, un giornalista che “banalmente” l’ha raccolta, un direttore che ha avallato la cosa, qualcuno che ci guadagna, altri che ci perdono.

Nel gioco al massacro in cui è stata trascinata di forza l’antimafia, a perderci è il Paese intero, a cui viene sottratta la possibilità di determinare liberamente il proprio futuro. Delegittimare il movimento, quali che siano le vicende giudiziarie su cui si fa leva, è il classico gettar via il bambino con l’acqua sporca. Cui prodest? Un altro problemino non da poco nell’analisi del fenomeno mafioso è che nel passaggio dalla teoria alla pratica non ci si raccapezza più. Da decenni sono stati ben chiariti il concetto di borghesia mafiosa e il funzionamento dei comitati d’affari: dal livello locale a quello nazionale ed internazionale, massoni, mafiosi, politici, imprenditori, uomini delle istituzioni e della Chiesa, poteri vari e cordate di ogni genere s’accordano per gestire risorse nell’interesse di pochi. Movimenti sotterranei che, anche quando vengono a galla, si fatica a interpretare nella loro reale portata e consequenzialità. Non sarà che alcuni di questi classici poteri forti hanno deciso di farla finita con l’antimafia sociale? Lo statista Andreotti, che di queste cose se ne intendeva, amava ripetere che “a pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina”.

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