memen

 

di Dario Nunnari –

Davanti a quella fotografia Alberto pareva soffrire l’indugio che si avverte dinanzi ad un libro letto tanto tempo prima. L’istinto di rileggerlo combatteva con la propensione a pensare il tempo e la conoscenza in termini di economia e progresso dunque a non tonare indietro, a riconoscere solo all’andare avanti l’uso produttivo di essi. Ma l’istinto quella volta prevalse.

Alberto prese il treno senza fretta, ancora immerso tra nomi, luoghi, avvenimenti che di quel libro non ricordava più bene, tutti confusi in un passato compresso e sfuocato di cui solo il retrogusto agrodolce risultava un sapore noto. Ma Alberto non era un viaggiatore qualunque quel giorno. Quel giorno era emigrante: non lo era più da tempo ormai, ma la coscienza del ritorno alla sua terra gli aveva restituito questa identità di cui aveva quasi smarrito l’orgoglio dimesso e che ora percepiva senza rabbia o nostalgia.

La città di Memento gli si offrì al crepuscolo: il momento ideale per bilanci e revisioni, ricordi e sogni. A quella luce la città gli parve strana, come fatta di incongrue e consolidate disarmonie elette a normalità dall’arroganza tranquillizzante dell’abitudine.

Alberto vi si immerse senza l’accortezza di prendere fiato. Un giorno dopo l’altro rivide i luoghi, riassaporò i gusti, riconobbe i volti e ripronunciò nomi e parole dimenticate, sentendoli nuovamente familiari, come per la prima volta. E quelle pagine ingiallite che riprendevano vita e lo avvincevano e lo tenevano di nuovo incollato lì a continuare, teso tra la curiosità di sapere come va a finire e l’ingenua disposizione a rimandarne il momento.

Alberto vagava osservando, chiedeva il perché delle cose e rifletteva sulle conseguenze, metteva a tacere le certezze e s’incuriosiva dei particolari inoltrandosi ogni giorno di più nella trama di rioni desolati, nelle vicende di vite desolanti, in quotidiani soprusi neppure riconosciuti più come tali, in gesti antichi e nobili d’umiltà e atteggiamenti decrepiti nella loro effimera modernità.

E al volto di Memento che si stava ricomponendo nella sua mente ne vide sovrapporsi altri: quello di una città in cui le macchine non venivano rubate ma rapite, in cui solo quando le cose si manifestavano nella loro mediatica evidenza ci si accorgeva di quanto fossero da sempre di pubblico dominio, in cui il ricatto risultava la norma contrattuale più usata e la rassegnazione la forma di protesta più diffusa, in cui un clientelismo contraccettivo era precauzione preliminare alla contrattazione, in cui l’emergenza riusciva sempre la misura più accorta di approccio all’ordinario e in cui l’unica cosa che potesse dirsi davvero “comune” era il “luogo”.

Tornato nella vecchia stanza da letto, tra i poster di Schillaci e Ayrton Senna per nulla stupiti di rivederlo lì, Alberto posò il libro sul comodino e chiuse gli occhi con la convinzione che sarebbe ripartito al più presto anche se, in fondo, quello era un posto come tanti nel Paese in cui viveva.

Quindi riaprì gli occhi e riprese il libro: avrebbe letto ancora qualche pagina prima di riaddormentarsi.

 

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