articolo di Dario Nunnari – ( foto di Emiliano Barbucci) –

Osservo con piacere quanti ogni giorno intorno agli scavi di Piazza Garibaldi cercano di ritagliarsi uno sguardo per curiosare tra le ringhiere di protezione dello scavo, con il sacrosanto diritto di non saperne niente di archeologia, ma con il gusto – mi piace pensare – di partecipare a modo loro alla vita della città, ad una scoperta (in una città con la storia di Reggio Calabria forse tanto “scoperta” non è!) che è giusto renda tutti vigili e fieri.
Ascolto con altrettanta simpatia chi si appassiona in improvvisate discussioni sulla destinazione d’uso di quanto emerso, per quanto strampalate teorie possa suggerire ad alcuni una sostanziale ignoranza del contesto.
Non sento però il bisogno di rimproverare loro ignoranza o presunzione, in un’epoca in cui una comoda tastiera sembra sufficiente a renderci esperti e saccenti titolati a sentenziare su qualsiasi argomento.
E’ altro quello che mi turba.
A questa simpatia si sovrappone, infatti, la molesta sensazione di un voyeurismo fine a se stesso, senza emozione, che spesso si limita a fotografare ciò che non ci si prende la briga di osservare e sentire profondamente, che guarda gli archeologi al lavoro con lo stesso piglio diffidente con cui osserverebbe i lavori per il rifacimento del manto stradale o della rete fognaria, che rispolvera il repertorio di retorica sull’inutilità della ricerca archeologica da opporre preventivamente al repertorio di retorica sulla difesa del patrimonio storico della città come “volano di sviluppo”.
Tra il sensazionalismo da prima pagina e l’ansia da selfie, la tuttologia da bar e l’erudizione per sentito dire, la strutturale carenza di educazione civica o la tendenza del non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che è nuovo, abbiamo dimenticato che un patrimonio da difendere e valorizzare, pur nella speranza di poterlo ampliare, lo avremmo già: se solo avessimo l’accortezza di smetterla di spiare dal buco della serratura per aprire la porta e vivere casa nostra con rispetto e cura.
Per questo siamo tornati in alcuni dei siti archeologici della città, per provare che l’impressione di una contraddizione tra la smania scomposta di questi giorni e l’incuria del passato -molto prossimo al presente- non è solo supponente pessimismo.
La tentazione di pensare che sia meglio che tutto resti sepolto è facile e non ho intenzione di cedervi.
Ma è evidente che tutto quanto emerso della storia della città, dopo un primo entusiasmo, forse ingenuo, forse propagandistico o ipocrita, è caduto in un oblio ancora più cupo di quello in cui si trovava sottoterra. Perché strumentalizzato dall’opportunismo di paladini della cultura a progetto o reso sterile dall’incapacità di una comunità e dei suoi amministratori di pensare i beni archeologici in un’ottica di fruibilità collettiva e di immaginarli organicamente inseriti nel tessuto di una vita cittadina che, più che esporre passivamente ciò che il caso -e non la volontà – gli ha offerto, avrebbe il bisogno disperato di rendere la propria storia fertile strumento di produzione culturale. Fino ad allora, più seppellita di tutte risulta proprio la storia emersa.

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