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Generazione mille euro? Magari!”: se Fantozzi non è più uno sfigato (o delle mutazioni di un’icona cinematografica)

  • – di Elisabetta Viti –

Correva l’anno 1975 quando nel cinema e nell’immaginario nazional-popolare entrava una delle maschere più longeve del grande schermo: il ragionier Ugo Fantozzi, impiegato goffo e vessato in quotidiana lotta con la “sfortuna” dei mediocri nel sistema dei vincenti. E di chi si accontenta(va) ai tempi dell’ideologia produttivistica del “miracolo”. Era la caricatura grottesca dell’italiano medio ai tempi del boom: senza laurea, senza ambizioni, senza sogni più elevati di un frittatone di cipolle da ingurgitare, in basco e coperta, davanti al calcio in tv. E proprio sul piccolo schermo il personaggio aveva esordito, sette anni prima, attraverso i monologhi del suo inventore, Paolo Villaggio, a Quelli della domenica, prima di diventare una serie di racconti per L’Europeo, sempre a firma dell’attore genovese, poi multi-tradotto best-seller targato Rizzoli nel 1971 e, con 8 romanzi e 10 film, una delle saghe made in Italy più fortunate e durature.

Il Paese – e non solo – si riconosceva e rideva del maldestro dipendente della “Mega-ditta” sul filo – comico, tragico, macchiettistico e a tratti poetico ( Fantozzi che sottrae la figlia ‘scimmiesca’ alla derisione dei superiori in una scena che ricorda Bellissima) – delle sue disavventure. Oltre quarant’anni dopo quella prima pellicola a direzione Luciano Salce (che firmerà anche il secondo episodio), Fantozzi è diventato icona moderna del perdente, il termine “fantozziano” è entrato definitivamente nel vocabolario come sinonimo di “sfigato”, ma non possiamo più applicarlo al tipo d’uomo (e lavoratore) di qualche decade fa. Perché nel frattempo essere Fantozzi, col suo lavoro d’ufficio, l’orario fisso e gli straordinari pagati, le ferie, una casa in equo canone, un matrimonio, una figlia e una pensione garantita sono diventati il sogno (improbabile) di tantissimi giovani (e sempre meno giovani) in cerca di occupazione. Diplomati, ma anche laureati carichi di master e formazione, costretti a cercare (e forse trovare) impiego nei call center, nella selva dei contratti a progetto, nei tirocini a tempo perso e nella fantasiosa giostra dei lavori non pagati, mal pagati o con promesse di improbabili inquadramenti futuri… Trentenni che Fantozzi per così dire se lo sognano. E quarantenni che non sono nemmeno al primo figlio.Con in più la beffa, già classica, del politico di turno che ogni tanto decide di insultarli: dai “bamboccioni” di Padoa Schioppa-memoria fino ai lacrimevoli (visto lo show piangente dell’allora ministro del Welfare) “choosy”. Ma la lista di offese è più lunga ed è lì a dimostrare che la realtà ha da tempo superato l’iperbole fantozziana della rappresentazione, fino a ribaltarne provocatoriamente il significato. Per il ragionier Fantozzi la cattiva sorte aveva infatti persino la forma, ormai anacronistica, di una serie di obblighi “leggeri”: settimane bianche col capo (Fantozzi contro tutti), rassegne di cinema d’essai per riottosi impiegati (Il secondo tragico Fantozzi), tornei a calcetto o a tennis coi colleghi… E, a fine carriera, la ‘noia’ più grande della pensione (Fantozzi va in pensione). Un mondo che, se all’epoca poteva sembrare la versione divertente e popolaresca della frustrazione “professionale” che aveva portato a inizi Novecento l’impiegato, di giorno, Franz Kafka a scrivere di notte le sue claustrofobiche atmosfere, oggi appare come l’utopia di un’epoca conclusa che ci irride, ad appena qualche decennio di distanza, con la sua mitologia vuota. Era una società in cui i diritti essenziali del lavoro (a cominciare dal fatto di averlo un lavoro regolarmente retribuito) erano dati per scontato e le ingiustizie passavano attraverso le differenze di classe e di istruzione legate ad una insondabile “sfiga” di nascita. Le famiglie dei liberi professionisti – ingegneri, architetti, avvocati etc. – stavano da un lato, quelle dei ragionier Fantozzi dall’altro. Quarant’anni dopo il debutto letterario e cinematografico, pure le famiglie Fantozzi hanno i propri coronati di alloro ma il titolo di laurea non è più sufficiente a garantire l’esistenza “media” dell’ex fallito Fantozzi, oggi invidiato prototipo di un lavoratore che non c’è (quasi) più (almeno fra gli under 40). Come non sentirsi beffati dal racconto di “mega-ditte” in cui il problema dei dipendenti era il tedio da ammazzare giocando a battaglia navale; o la corsa a uscire prima dagli uffici; o l’angoscia di essere beccati dal medico fiscale durante una falsa malattia? Cosa può dire un ultratrentenne di oggi – la cui sola costante di vita è una precarietà che rinvia all’infinito la sua possibilità di sposarsi –rispetto alla generazione di chi poteva permettersi il lusso di sentirsi oppresso dalla banalità di una “normale” vita domestica da marito, moglie, madre e padre(“Esco a comprare le sigarette”)? E come può sentirsi infine uno dei tanti cervelli (nemmeno più in fuga) a cui si chiede di pagare per essere sempre più bravi, studiosi e titolati inseguendo un futuro adeguato alle spese, di fronte alla rappresentazione di una realtà in cui ci si poteva addormentare nei circoli del dopo-lavoro guardando (gratis) il capolavoro – né lungo né noioso (malgrado la nota stroncatura fantozziana) – di Ėjzenštejn?

Un tempo in cui esisteva, ancora, il tempo libero. Quello che Nietzsche scelse di anteporre ai “tempi moderni” (stakanovisti, veloci, disumani) del lavoro – in anticipo su quelli immortalati dall’omonimo film (Modern Times) di Charlie Chaplin. La riduzione dell’individuo a ingranaggio porta in esso il celebre omino all’esaurimento nervoso e quindi a liberarsi – con quel calcio all’indietro tipico secondo Bazin del personaggio (e in direzione contraria alle pedate in avanti di cui è pure emblematicamente oggetto Fantozzi) – dal passato e dalla schiavitù della fabbrica verso l’orizzonte aperto e lirico del vagabondo. Con simile ma più dissacrante spirito di rottura, Nietzsche, dopo una giovinezza di studio durissimo che ne aveva inficiato la salute e una cattedra di filologia classica ottenuta a soli 24anni, decide trentunenne di andare in pensione e cominciare quel “vagabondaggio”(prima della follia) che gli permetterà di diventare lo scrittore che conosciamo. Viaggio fisico anzitutto. Di filosofo che sa che “il sedere di pietra è un peccato contro lo Spirito Santo”, che in solitaria arriva un giorno fino allo Stretto di Messina. E che teorizza il più estremo dei j’accuse al totem del lavoro: il rifiuto della modernità come “epoca del lavoro”e la scelta (riuscita visto che la maggior parte della sua produzione filosofica comincia da lì) di ritorno all’otium latino, il tempo libero e liberato per le attività del pensiero.

Esempio felice di “baby pensionato” ante litteram. Agli antipodi di quelli “letterali” introdotti nel 1973 dalla Prima Repubblica e spregiudicatamente preservati ancora in era Craxi, mentre si arricchiva di nuovi capitoli e continuava a far ridere l’avventura fantozziana. Dobbiamo arrivare al 2009 perché il racconto del cinema italiano sul lavoro, nel mostrarne il sostanziale mutamento, introduca un’altra espressione destinata, come quelle fantozziane, a diventare modo di dire: è Generazione mille euro di Massimo Venier, riuscita commedia sul precariato esistenziale di un gruppo di neo- laureati in cerca di occupazione, con lo stesso Paolo Villaggio nel bel ruolo di un professore. E una condizione giovanile comune: lavorare per mille euro al mese.

Ancora una volta tuttavia il linguaggio cinematografico sembra farsi beffe – involontariamente – della realtà che descrive. Correva l’anno 2010: nell’ambito di un’inchiesta sul destino professionale dei laureati dell’Università “Mediterranea” ad uno, tre e cinque anni dalla fine degli studi, condotta per il “Quotidiano della Calabria”, intervistai un giovane reggino con laurea, dottorato e massimi voti. “Generazione mille euro?”: gli chiesi.“Magari!”: fu la risposta immediata. Essere Fantozzi, nel nuovo millennio, è diventato un miraggio.

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