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Gli scafisti sono delinquenti necessari. Individuarli, arrestarli, processarli e condannarli significa fondamentalmente riconoscere due cose: abbiamo affidato ad un sistema criminale la gestione di un corridoio umanitario; abbiamo bisogno di un sistema criminale per consentire l’intervento di soccorso nel Mediterraneo.

Il sistema di accoglienza, prefetture protezione civile volontariato eccetera eccetera, la riflessione su dove metterli e quanti sono, l’economia dell’ospitalità, perfino la pietà umana si reggono su questo dettaglio significativo: senza scafisti, senza barconi, perderemmo l’iconografia che alimenta la compassione occidentale a cottimo. Senza i barconi  centinaia di migliaia di persone cercherebbero altri modi per fuggire dai propri paesi: morirebbero di più, probabilmente, e ne sapremmo di meno.

Non possiamo accoglierli tutti: solo quelli che sopravvivono al deserto, alle prigioni, alla fame, alla sete, agli stupri, ai machete, alle pistole, alle violenze, agli scafisti, alle carrette del mare. Gli scampati a questa selezione della specie possono essere accolti o meno: ecco i termini della questione. Questo è l’unico metodo che la civile Unione ha finora trovato per controllare il “flusso dei migranti”.

Sono stati seppelliti in 45. I nati morti all’Europa, una famiglia di senzanome, giunti cadavere al porto di Reggio Calabria. 45 numeri su altrettanti paletti, piantati nella nuda terra. Oggi chi la visita confessa che questa valle è senza pace…le teste dei gigli che oscillano e piangono una tomba senza nome, scrive E.A.Poe: versi che, con la stessa atmosfera di orrore, descrivono bene anche i cimiteri dei migranti, vittime collaterali di una guerra che si combatte altrove. La forza sincera del dolore, insieme alla sua deriva retorica che si chiama cordoglio, hanno dato espressione ad una simbologia forse efficace. Ma che ha fatto dimenticare una questione imprescindibile: quei 45 numeri sono 45 clandestini. E lo sarebbero stati anche da vivi. La depenalizzazione del reato è nell’agenda del Governo, ma l’opinione pubblica “non è pronta ad accettarla”. Meglio accettare volti stremati e salme da seppellire: roba che si può digerire. E che tutto sommato crea consenso elettorale, con l’immaginario di carità che ci si costruisce sopra. Senza pensare che lo status di clandestinità contribuisce ad alimentare le rotte criminali, prima e dopo lo sbarco. Non esiste carità senza giustizia: assunto laico prima che religioso. Bandiere a mezz’asta e anniversari delle tragedie in agenda sono efficaci modi per esprimere una sensibilità a modino, per dimenticare l’ingiustizia profonda che trasforma esseri umani in clandestini. Sia sopra che sotto terra. Da vivi e da morti. Sia più lieve il mare, allora. Perché in terra l’opinione pubblica, le elezioni, la propaganda, la retorica contano di più.

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