di Dario Nunnariblanco

 

Arturo si svegliò con fare guardingo, come lo minacciasse un presentimento, o un’ansia immobile.

E stiracchiandosi confusamente, nel tentativo di ristabilire il contatto col reale che si andava nascondendo tra i rimasugli di sogno appesi agli angoli degli occhi, pensò: Buongiorno, mondo crudele.

Sul comodino, lì dove li aveva lasciati la sera prima, intatti e come nuovi per quanto girati e rigirati mille volte, stavano i soliti problemi.

I problemi di chi aveva avuto l’ardire di nascere in un’epoca di grandi speranze – come lo sono tutte le epoche di gigantesca miseria – senza la precauzione di farlo nel posto giusto.

Annaspando con sincera partecipazione nella conflittualità perversa di chi ha perso di vista se stesso alla ricerca di una collocazione nella realtà che gli è toccata, Arturo coltivava da mesi la segreta ironia di poter affacciarsi -un giorno anche lui- alla metafisica del lunedì nella declinazione del lavoratore alienato e sottopagato cui guardava con animosità e rispetto.

E ne studiava intanto la teoria, entrava in confidenza con ideali solenni e vili prassi.

Perplesso dall’estenuante lavorio della ricerca di un lavoro si scopriva, con alterne fortune e medesimi malumori, fustigatore dello sfruttamento e incauto martire del sistema, critico irreprensibile di un mercato malato e ingranaggio infinitesimale funzionale allo stesso.

In tale confusione si fece spazio in lui perfino la possibilità che la sua condizione di caducità permanente fosse provvisorio e necessario stadio di purificazione ed elevazione spirituale.

Chi gli avesse messo in mente questa esoterica fesseria da cui non riusciva a liberarsi del tutto non avrebbe saputo dirlo, solo, adesso, gli pareva l’unico modo di sopravvivere a sensi di colpa terapeutici e timori insoddisfatti, sfrenate pulsioni economiche e familiari aspettative che gli rendevano la vita improbabile.

La parola lavoro, così, indossata come talismano o brandita come minaccia, balsamo officinale e spauracchio, capro espiatorio e panacea, continuava a rimbalzare nella sua testa, rotolava nei suoi discorsi, scivolava tra i suoi sogni, si insinuava perfida nei suoi gesti quotidiani taglieggiandolo, accusandolo e tuttavia provocando in lui sospiri e malinconie, amante riottosa e pervicace.

Lentamente, come a sottolineare la slow motion di cambiamenti epocali, quella strana forma che aveva composto, tesa in vitruviana emulazione, si andò rilassando in una postura nuova, sospesa in conflitto ergonomico tra gravità e leggerezza.

E alla luce timida dell’alba e a quella più coriacea dei fatti quali se li prospettava, mentre il colloquio al Call Center gli pareva d’un tratto dignitoso compromesso assolutorio, cominciò a pensare che, a conti fatti, il mestiere del disoccupato non era poi meno usurante di tanti altri.

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