coop

 

 

     

di Paolo Scaramuccia – 

Recentemente alcune cooperative sono finite al centro dell’attenzione mediatica a causa di fatti di cronaca giudiziaria, sui quali non entrerò nel merito e sui quali ci sono indagini che faranno chiarezza.

L’aspetto che voglio indagare è invece un altro: perché per alcune imprese cooperative coinvolte in inchieste giudiziarie si mette in discussione un modello?

In passato quando le grandi multinazionali di Wall Street hanno truffato mezzo pianeta coi loro titoli tossici o grandi aziende (anche italiane) hanno fatto bancarotta fraudolenta, nessuno ha mai messo in discussione il modello di società per azioni o la borsa valori con il suo sistema di controlli, perché è giusto così, un modello sta in piedi a prescindere dai fatti di cronaca.

Ma per la cooperazione è differente, da sempre. Ma perché il modello cooperativo è “fastidioso” per alcuni, soprattutto quando comincia ad avere valori e numeri di carattere nazionale o internazionale?

Con il crollo delle ideologie e quindi con il venir meno di “conflitti politici” la risposta più probabile è che la cooperativa non è un’impresa “scalabile”, non è un concorrente che posso “acquistare” o “controllare”. Perché?

La cooperativa ha un modello di governance unico, quello democratico, una testa un voto, ogni socio ha un voto in assemblea, a prescindere dal capitale che ha versato, quindi la maggioranza vince, questo le rende “non scalabili”.

Un altro tipo di attacco portato alla cooperazione è generalmente l’accusa di essere un modello “vecchio” di impresa, non adatto al mondo moderno, globalizzato, dinamico e veloce; “le cooperative andavano bene a inizio ‘900 per dare lavoro a braccianti e facchini o nel dopoguerra per dare una casa a tutti o per lavori “di basso profilo, ma non può funzionare in un’economia informatizzata, digitale dove si richiedono professionalità e competenze di alto livello, al massimo possono occuparsi di sociale e agricoltura”.

E allora sulla base di questi pensieri, raccolti in occasione di incontri o dibattiti, nasce una riflessione sul mondo del lavoro e il suo legame con la cooperazione.

Le cooperative di lavoro nascono effettivamente a fine ‘800 in piena rivoluzione industriale, quando i braccianti (muratori, facchini, contadini) si uniscono per poter aver maggior peso contrattuale con i proprietari terrieri, con i costruttori e anche con gli enti locali. All’epoca la cooperativa era strettamente connessa con ideologie politiche, ma già all’epoca aveva una connotazione imprenditoriale molto forte, tanto che molte di quelle imprese sono ancora oggi vive, sono cresciute tanto da diventare leader europei nei loro settori.

La situazione dell’epoca era la seguente:

– altissima disoccupazione

– precarietà contrattuale

– scarsi diritti

– scarsità di risorse economiche da parte degli enti pubblici

– innovazione tecnologica (le macchine iniziano a sostituire le persone)

Per chi volesse approfondire un pezzo di questa storia del nostro Paese vi consiglia il romanzo di Valerio Evangelisti “Il Sole dell’Avvenire” una trilogia che racconta attraverso gli occhi di un bracciante la storia del nostro paese dal 1900 in poi, descrivendo anche la nascita delle cooperative, le lotte e le conquiste dei lavoratori uniti in cooperativa.

Se analizziamo la situazione dell’epoca e la confrontiamo con quella di oggi appare evidente che alcuni aspetti ritornano, con caratteristiche e differenze sostanziali (l’Italia è senz’altro un Paese più ricco di allora, diritti civili e sociali sono ormai acquisiti, la povertà come quella descritta nel romanzo di Evangelisti è sicuramente marginale oggi rispetto ad allora), ma nei concetti di massima possiamo verificare che alcune di quelle situazioni si stanno ripetendo.

Le generazioni più giovani sono quelle che pagano maggiormente in termini occupazionali, fanno il loro ingresso nel mondo del lavoro con contratti precari e quindi minori tutele, una situazione che non è limitata ai primi anni di lavoro ma che ormai è diventata “stabilmente precaria”.

Ci troviamo in una fase di crisi stagnante e prolungata che ha ridotto sensibilmente le risorse degli enti pubblici e il tutto sta avvenendo in una fase di innovazione tecnologica, quella che molti definiscono la quarta rivoluzione industriale.

Una cosa è però sensibilmente diversa e per certi aspetti anche paradossale. La precarietà e l’assenza di diritti è maggiore per quelle professioni cosiddette di più alto profilo, perché nel corso dei decenni proprio quell’unità di lavoratori nata con le cooperative e poi con i sindacati (ebbene sì la Lega Nazionale delle Cooperative nasce nel 1886, il partito socialista nasce nel 1892 e la CGIL nel 1906) ha portato ad affermare diritti e tutele per i lavoratori. Negli ultimi decenni però anche sindacati e partiti non sono stati in grado di intercettare i cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro e dell’economia, non hanno individuato le nuove professioni del futuro, che già oggi sono un pezzo importante della nostra economia.

E allora oggi non abbiamo più braccianti ma informatici o giovani professionisti nelle condizioni di forte intercambiabilità tra lavoratori e quindi scarso potere contrattuale, in un mercato come quello italiano ancora poco attento alla qualità e concentrato ancora sulla quantità e su modalità organizzative di lavoro vecchie.

E allora ecco tornare all’inizio del ragionamento, la cooperativa è ancora un modello valido? Si la cooperativa è una risposta per tutti quei giovani che non hanno molti capitali da investire e non vogliono essere dipendenti di qualcuno, investendo così sul proprio lavoro e sul proprio futuro.

L’attualità del modello cooperativo nel mondo del lavoro anche in settori tradizionali (manifatturiero) è dimostrata dal fenomeno dei workers buy out.

Cosa sono i workers buy out? Le imprese che chiudono perché la proprietà (spesso multinazionali) non ha più un interesse economico (margini troppo bassi, opportunità in mercati stranieri, costo del lavoro più basso altrove, oppure il proprietario non ha un erede a cui poter lasciare l’azienda o è costretto a chiudere per coprire debiti non derivanti dall’attività aziendale), in questi casi i lavoratori si uniscono in cooperativa e rilevano l’azienda o alcuni asset e proseguono l’attività, forti delle professionalità acquisite negli anni e della motivazione e l’impegno personale di tutti i soci che vi investono parte della loro liquidazione e passano da dipendenti a proprietari. In Italia sono ormai numerosi i casi di “wbo” cooperativi: cantieri navali, case farmaceutiche, produzione di materiali per l’edilizia, arredamenti, ecc.. Un fenomeno che è mondiale, tanti gli esempi anche negli Stati Uniti o nel Sud America (empresas recuperadas).

Il lavoro in cooperativa si adatta ai mercati e alle società che cambiano, il lavoro in cooperativa garantisce quella “flessibilità” vera che richiede il mercato, non una flessibilità dei diritti o dei contratti, ma una flessibilità di modello capace di adattarsi ai nuovi mestieri, ad una nuova organizzazione del lavoro ai cambiamenti della società, mantenendo ferme le sue caratteristiche, insomma un modello nuovo di 150 anni fa.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here