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-di Antonio Ci-

Alcuni anni fa, in Calabria, ad una cena-riunione con un gruppo di compagne capitò – non ricordo affatto come – anche una ragazza del paese, anzi proprio una “paesana”, come si dice da noi con gretto classismo per dire di qualcuno che è “del popolo”: disoccupata, figlia di disoccupati/sottoccupati, ferma alla terza media, campata dalla nonna e dalla sua pensione di sì e no quattrocento euro.

Le compagne erano giovani pure, “del nord”, antropologhe e femministe militanti; una era addirittura una dottoranda in “gender studies” presso qualche università figa del Regno Unito. La ragazza paesana era entusiasta, un sacco di gente nuova e interessante in un posto dove non succede mai niente. Sopratutto, un sacco di gente che non la conosce e quindi, quantomeno per questo, non la giudica.
Parlava molto con le sue nuove amiche, e ben presto il suo discorso si incentrò su quanto è duro vivere in un paese dove “parlano tutti”, “non si può fare niente”, “si inventano le cose”. Oggetto unico del suo monologo, ovviamente mai esplicitato e men che mai coerentemente sistematizzato, era il suo essere donna (nonché povera, e poco istruita) nel contesto di un microcosmo sociale diciamo assai difficile e, tra le altre cose, fortemente maschilista.
E’ chiaro dunque che il suo era un disagio fortemente sessualizzato, intrecciato come prevalentemente succede ad una strutturale debolezza di classe.
Così per ore e ore, con elaborate acrobazie verbali, capolavori di doppisensi e una mirabile pudicizia lessicale, provava a spiegare alle ragazze che il paese è uno schifo: lei è fidanzata da cinque anni, col suo ragazzo sono orgogliosamente capaci di stare pomeriggi interi nella stessa stanza senza darsi neanche un bacio, tant’è che rischiare di perdere la verginità prima di andare a vivere insieme le suona insensato e ridicolo, eppure tutti “parlano male”, e di questa ingiustizia, davvero, non sa come venirne a capo. Il succo del suo inarrestabile torrente di parole era: più che cucirmi la figa con entusiasmo, che altro posso fare per non passare per una puttana?
Le compagne la guardavano come si guarda un animale allo zoo. Per essere precisi, un animale esotico e davvero, davvero strano. La dottoranda esperta di gender studies poi, probabilmente per attitudine accademica, la guardava proprio come se fosse capitata lì quella sera precipitando in cucina direttamente da un cratere della Luna. Davvero non capivano, e me ne avrebbero parlato allucinate per giorni a seguire. In tutto ciò, io sorridevo molto e mangiavo di gusto.
Questo episodio mi è tornato alla mente in questi giorni, alla luce della chiassosissima polemica sul burkini e dibattito pubblico conseguente. Non sono un esperto di Islam, né un ricercatore di studi di genere in Inghilterra o altrove: la mia considerazione e il mio atteggiamento nei confronti dell’Islam come proposta politica e sistema di norme volto a regolare la vita sociale sono o sarebbero gli stessi di quelli di un Diderot, di un Menocchio o di un Serveto nei confronti della Chiesa cattolica e dell’Inquisizione. Aperta e chiusa parentesi, sopratutto perché considero la questione burkini e affini una questione di rapporti di genere e di lotta per il potere politico, e non di una religione particolare.
Non posso fare a meno di soffermarmi, tuttavia, sulla posizione che la sinistra antagonista europea ha espresso sulla questione. In breve, si argomenta, vietare per legge un capo di abbigliamento è del tutto simmetrico e speculare all’imporlo: e su questo, sebbene io sia convinto che la valenza simbolica del divieto (con la sua genealogia) sia ben più complessa di una semplice intenzione di vendetta e di ghettizzazione di una minoranza, sono perfettamente d’accordo. Il corpo delle donne, ancora una volta, è un “luogo pubblico”, nel senso di un campo aperto all’esercizio della sovranità – nel caso di specie – statuale. Questo è tanto vero quanto orribile, ecco perché ogni pratica di questo tipo va combattuta, senza esitazioni.
Dire che vietare il burkini ha senso in quanto significa, nel concreto, sottrarre agli islamisti un luogo di propaganda e di espressione funzionale alla loro battaglia politica e’ inaccettabile: da un lato, perche’ cosi si tace di dire che la sottrazione di questo luogo agli islamisti passa attraverso la sua violenta e speculare occupazione simbolica da parte del potere pubblico; in secondo luogo, e sopratutto, perche’ cosi’ facendo si legittima – operandola a propria volta – la presa in carico del corpo delle donne come appunto campo di battaglia, posta in gioco della lotta politica.
Il che sarebbe come sdoganare la clonazione degli esseri umani per produrre organi di ricambio, perche’ tutto sommato cio’ salverebbe delle vite: il prezzo e’ la irrimediabile alterazione qualitativa del concetto di vita umana, e questo e’ un prezzo che non si puo’ pagare.
Che i miei compagni dicano qualcosa di intelligente è la riprova che le giuste cause alle volte hanno pessimi avvocati. Tuttavia il burkini è legge, dal ’79, anche in Iran, solo per fare un esempio minuto: giacché in Iran è legge pure la pena di morte per la donna adultera, o la fustigazione, ed è sancita la minorità giuridica di una donna rispetto ad un uomo proprio come da noi prima della Rivoluzione francese. Sistema normativo condiviso da decine di altri stati (tra cui molti, politicamente alleati dell’Europa), nonché proposta politica per l’esistente di una congerie di gruppi e movimenti se non altro sedicenti islamici sparsi un po’ in tutto il mondo.
La legge coranica in Iran o la mutawwiʿa Saudita non turbano affatto (o solo en passant) i sonni dei miei compagni, proprio come una montagna di altre cose tremende che succedono nel nostro povero mondo; e mi viene allora il sospetto che al fondo della loro dura, rumorosa e io credo anche artificiosa presa di posizione ci sia, come spesso c’è al fondo dell’immaginario di questa sinistra occidentale post-moderna, para-accademica e smarrita, ancora una volta il solito ridicolo, mistico, eurocentrico e per me incomprensibile senso di colpa dell’essere occidentale.
E’ una questione biblica, di peccato originale. Perché deprecare un burqa dicono, quando da noi una donna si sente a disagio se non si depila? Non si tratta forse della stessa identica violenza? Io una risposta molto umilmente vorrei avanzarla: per lo stesso motivo per cui è giusto che tu possa liberamente scrivere le tue stronzate, anche se sono stronzate, o magari una poesia, piuttosto che essere decapitato per blasfemia, tanto per dire.
Tanto la negazione del corpo femminile quanto una sua esposzione declinata in un funzione di uno sguardo sessualizzato al maschile rispondono certo del proprio senso, in ultimo, ad una struttura di oppressione di genere. Tuttavia bisogna essere davvero ipocriti, o vivere la vita dietro ad un computer, per immaginare sul serio che tra il disporre del corpo come di un campo semantico tutto sommato aperto ed il seppellirlo, o tra il volersi depilare le gambe e l’essere obbligate dalla legge ad indossare un velo, non passi alcuna differenza.
Chiamatela una questione di priorità, mero senso delle proporzioni, o piu’ prosaicamente contatto con il mondo reale.
Tornando appunto ai miei compagni della sinistra europea, a ben guardare infatti, la loro lettura della questione burkini non consiste in una contestazione sacrosanta del gesto biopolitico di svestire per legge (o meglio, per decreto) i corpi delle donne, gesto del tutto speculare e ontologicamente affine a quello opposto di vestirle con gli stessi metodi.
La loro argomentazione muove e si incentra – scambiando, come se non bastasse, il dito con la luna – sulla potenziale carica progessiva e liberatrice della riapproprazione cosciente di segni e simboli dell’oppressione. E’ su questo che mi voglio concentrare: secondo loro il velo, o il burkini, o il burqa e così via, sarebbero infatti non necessariamente segni di oppressione di genere ma, anche, costumi passibili di rivendicazione, una scelta autodeterminata, gesto liberatorio. Oggetti e costumi polisemici dunque, duttili, in sé neutri, recipienti vuoti passibili di contenuto molteplice, indossati o adottati anche liberamente da molte donne ed espressione visibile, in questo caso, di una pratica di autodeterminazione.
Strumento positivo di determinazione di genere dunque, rivendicato e voluto al di là e al di fuori della legge dei tribunali o delle leggi sociali.
Proprio come era auto-imposta, voluta, e apertamente rivendicata, la repressione della sessualità della “paesana” che capitò quella sera con noi a cena. Le mie compagne antropologhe e ricercatrici che la
guardavano come un aliena o un animale strano, o diciamolo pure, come una “poveraccia” o una “malata”, oggi sono tra quelle che argomentano che indossare il burkini è – può essere – un gesto femminista e liberatorio. Nel fare ciò, rilanciano continuamente riflessioni di donne arabe e musulmane, la cui stragrande maggioranza (o totalità) studia o ha studiato in università occidentali (magari antropologia, o “gender studies”), vive negli Stati Uniti o in Europa, e scrive su facebook in tre o quattro lingue europee. I loro discorsi, nei circoli antagonisti e universitari europei, vengono accolti come verità assolute in quanto il soggetto che li enuncia è donna, araba e musulmana: e nessuno sembra sfiorato dall’idea che tra queste donne arabe e musulmane e una donna araba e musulmana che vive a Riad passa la stessa differenza che c’è tra me e un igloo, tanto per dire.
Fermo restando, poi, che è assai curioso notare come la verità di un discorso venga con ciò, in pratica, ricondotta alla verità (statica) del soggetto che la enuncia: traslazione quantomai inopportuna, giacche’ se presa sul serio porterebbe alla validazione del discorso della madre che dice alla figlia meglio morta che incinta fuori dal matrimonio, solo perche per esempio si tratta di una madre che vive in banlieue, ed e’ immigrata e musulmana.
Tornando ora ai compagni e alla loro ripresa propositiva del burkini, in effetti chi di voi, se assolutamente libero dalla pressione sociale della propria comunità di riferimento, o dai condizionamenti e dagli orientamenti che di questa struttura sociale ha introiettato, non avrebbe almeno un po’ di voglia di farsi il bagno con un copridivano addosso, o di andare al mercato con 51 gradi all’ombra sepolto sotto un telo coprimoto? Ammettiamolo, noi tutti abbiamo segretamente sognato almeno una volta nella vita di chiuderci per cinque anni in una stanza con la persona che amiamo scambiandoci solo carezze e baci sulla guancia! Quanto è bello il gusto dell’autodeterminazione, quell’ebrezza che solo il riappropriarsi di segni e simboli dell’oppressore sa darti!
Io per esempio, come meridionale, ogni tanto fatico alla tentazione di andare in giro con la coppola e la lupara per sovvertire – riappropriandomene – la semantica della marginalizzazione di cui ingiustamente, per motivi di origine geografica, sono vittima incolpevole. Trovo fischiare alle ragazze per strada come se fossero capre o sparare a mia sorella perché porta la minigonna un gesto di autodeterminazione gaio e spensieratamente emancipatorio, del tutto libero e che sono orgoglioso di rivendicare. E’ un vero peccato che ci sia una legge che me lo vieti; e penso in ogni caso istituire quanto prima una sagra della mafia da affiancare a quella della nduja e della melanzana, nell’ottica di un piu’ compiuto recupero delle “nostre tradizioni” di popolo meridionale conculcato ed oppresso dai piemontesi.
Allora compagni, nel vostro rincoglionimento cosmico di cui fatico a trovare il bandolo e di cui comunque auspico lo sfumare in uno con l’agognato compiersi della vostra estinzione, proviamo con il catechismo. Ascoltiamo insieme una parabola che ha per protagonista il mio cinese preferito, non si sa mai che la cosa vi emozioni quantomeno per assonanze ed immaginari.
Come molti sapranno, il riso si coltiva in maniera estensiva, parliamo mediamente di 20/ha a risaia. Durante la guerra civile, in Cina, nelle zone liberate dall’esercito popolare i guerriglieri di Mao trovavano spesso una popolazione ridotta alla fame perché non c’era abbastanza manodopera per raccogliere il riso che, pure, la terra produceva (o avrebbe potuto produrre, se lavorata da un numero sufficiente di persone).
Le donne infatti, per tradizione, erano occupate nel lavoro domestico e oltre a ciò, per via dell’uso della fasciatura dei piedi cui erano sottoposte (una disabilità indotta, il cui tacco nostrano è una morbida riproposizione) erano, in ogni caso, pressoche’ inabili al lavoro nei campi. Sono assolutamente certo che molte di quelle donne, se non tutte o quasi, accettavano la mutilazione – o l’essere relegate al lavoro domestico – di buon grado, proprio come le mie amiche che escono di buon grado coi tacchi ed un paio di scarpe di riserva in borsa da indossare immediatamente a serata finita: il piede piccolo aveva una alta carica erotica e una donna con un piede integro, così come una donna dai costumi inaccettabili come fare un lavoro “da uomini”, avrebbe fatto davvero fatica a trovare un marito (il che in una società tradizionale significa l’espulsione quantomeno tacita dalla comunità, ovvero la morte sociale).
Una tradizione, frutto di una società maschilista e patriarcale, di cui tuttavia era difficile delineare anche solo approssimativamente in che misura la sua riproposizione fosse “voluta”, e quanto invece apertamente imposta. Esattamente come per tutte le pratiche che opprimono, di genere e non.
I guerriglieri di Mao la cui sopravvivenza, come è noto, dipendeva esclusivamente dal sostegno della
popolazione, ma che sopratutto AVEVANO IL SENSO DELLE PROPRIE IDEE E DEL PROPRIO COMPITO STORICO, si trovarono di fronte al dilemma di come porsi di fronte a questa usanza arcaica ma radicata da millenni nella Cina contadina, una “contraddizione in seno al popolo”, nella loro terminologia.
Con spirito pragmatico, mostravano ai contadini che, se il riso si raccoglie in due, se ne raccoglie il doppio, si mangia di più e si muore di meno fame. L’occhio del contadino vede giusto, diceva Mao: in qualche decennio il feudalesimo si disgregava e alla fine della Lunga Marcia i comunisti avrebbero vinto la guerra ed instaurato la Repubblica popolare.
Il che non ha significato, ovviamente, il tramonto del sessismo in Cina e meno che mai la realizzazione del paradiso in terra (magari le cose fossero così facili), ma ha sicuramente restituito una pratica di mutilazione e di esclusione alla sua nuda verità di violenza di genere. E questo non è successo per caso: ma è successo grazie alla LOTTA condotta dai comunisti cinesi contro idee e pratiche che essi consideravano SBAGLIATE.
Certo e’ difficile sbrogliare e restituire in maniera esatta la componente di oppressione e quella di adesione ad un sistema di interdetti quale quello che informa la condotta di chi sta insieme ad una persona per cinque anni e senza baciarla, o di chi si sente nudo se non fa il bagno al mare dentro una busta di plastica. Questo perché, come dicono i testi sacri, non esiste esercizio del potere senza resistenza ed adattamento, non esistono solo oppressi e solo oppressori, e il potere si ha come dinamica necessariamente dialettica, ambivalente, meglio ancora circolare, in cui esso agisce ed è al contempo agito.
Ma non vorrei che a rifletterci girando in tondo ci venga il mal di testa. Perche difficile non significa impossibile, e idee e pratiche tra loro intersecate e confuse non significano idee e pratiche di pari valore.
Per me ognuno deve essere assolutamente libero di andare a farsi il bagno avvolto in un paracadute, così come di fare la suora di clausura, o di tagliarsi il cazzo se gli dà fastidio. Libero di fronte alla legge, perché la legge deve essere tenuta al di fuori dei corpi (e delle anime).
Questo non deve farci smarrire il senso della lotta contro la violenza e contro la sua semantica. Qui e ora, di volta in volta: la violenza di sistema, di una pressione di genere, di una cultura sessista, di pratiche maschiliste, della marginalizzazione di classe, della assenza di un reddito, e di tutte queste violenze insieme. Stando attenti a non stare a salvare il mobile mentre la casa brucia. Perche’ se il centro del potere e’ vuoto, bisogna pur sempre tagliare la testa al re.
Sono assolutamente convinto che nella vita nessuna scelta e’ gratis, in termini di ricaduta rispetto al processo storico: sono partigiano. Ecco perché io prima che sproloquiare di fantomatiche equivalenze tra violenze sorelle ispirato dalle mutandine delle tenniste in televisione, penserei piuttosto alle donne che in Iran, in questi giorni, rischiano la vita perché vanno in bicicletta, o alla ragazza saudita persa nelle prigioni di Salman perché sorpresa alla guida di un auto. Il mio assoluto sostegno, la mia riconoscenza e la mia stima vanno a loro, prima che alle studentesse di Cambridge o di Vincennes che istrionicamente e “per autodeterminarsi” si rimettono il velo. Voi, poi, fate un po’ come cazzo volete.

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