marameodi Eduardo Grove – Strano popolo i Maramei, di ignote origini e incerto futuro, vagavano distratti negli spazi ameni del loro presente, cercando di trovarvi l’essenziale, quello sensibile allo stomaco e necessario al cuore, badando, ignari di ambizioni ideologiche da imporsi e diffondere, ad essere felici, senza accorgersi di destinare così alla paura e all’infelicità generazioni di altri popoli dinamici e operosi.

Sia chiaro, i Maramei non erano sprovveduti, e laddove la loro insolita pretesa aveva destato la sacra e santa rabbia di qualche altro popolo, si erano armati di tutto il loro coraggio, avevano raccolto il nulla materiale che possedevano, abbandonato il resto e portandosi via memorie di conoscenza e rapporti umani si erano trasferiti altrove.

Una terra antica li aveva adottati ormai da qualche generazione: senza una parola, madre sterile ma generosa, figlia da nutrire ed educare, padre ignoto dal volto mitico.

Tanta gente era passata di lì, con la distrazione del passante, l’indiscrezione del turista, la voracità del mercante.

Nessuno di loro si era fermato.

Pochi avevano portato via, in cambio del nulla lasciato, l’invito ad una socialità serena e accogliente.

Finché non giunsero anche lì, spinti dal cieco desiderio di espandere le proprie virtù, genti chiamate Protostorici che perplessi dalla naturale inciviltà di quel popolo, un po’ li deridevano un po’ li compativano.

Certo non li comprendevano granché.

Ad un occhio esterno i Maramei parevano vivere in una dimensione eccentrica fatta di relazioni e interazioni molto più che di cose, trascurando con medesima leggerezza la paura del tempo e la costrizione dello spazio, come fossero capaci di dilatare e distorcere le due dimensioni a forza di ignorarle.

Tutto questo ovviamente essi non lo sapevano ma così facendo risultavano quasi sempre gente sciocca da istruire e civilizzare.

Per il loro bene.

I Protostorici non avrebbero potuto chiedere di meglio, paladini di un bene che non temeva di sacrificare la bene altrui, e si stabilirono anche in quella terra piccola dalle radici profonde.

E da quelle radici si nutrirono e proliferarono crescendo di numero e necessità, di desideri e  volontà di soddisfarli  mentre i Maramei, incapaci di percepire quella terra come “la loro terra”, nulla avevano in contrario, non mutavano ritmi demografici ne’ stile di vita.

Che ciò sarebbe divenuto un problema sarebbe stato malizioso prevederlo.

Che ciò fosse già un problema sarebbe stato giudizioso intuirlo.

Gli intraprendenti protostorici s’incaricarono così, con slancio di inaudita pietà, di offrire anche a quel popolo stravagante un minimo di dignità: stabilirono leggi imparziali e governi nelle forme più alla moda, riconobbero a peso persone rispettabili e persone meno, crearono la gente che sapeva e insegnarono imbarazzo e obbedienza a chi non sapeva, e decisero poi cosa fosse malattia e cosa sanità elaborando una normalità a cui adeguarsi e una follia da temere, formarono eserciti e guardiani a presidiare i  confini assegnati alla terra non meno che all’animo umano.

“Gente strana questi Protostorici” – pensavano intanto i Maramei e li lasciavano fare; non sembravano curarsi più di tanto di tutto questo affaccendarsi, sentivano, senza ricordarlo chiaramente, che avevano già vissuto in qualcuno dei passati ereditati situazioni simili, forse anche peggiori e si adattavano, incerti tra curiosità e speranza: chi poteva sapere in fondo che non fosse quello il più ragionevole dei mondi possibili?

I Maramei erano fatti così e diversamente non erano abituati ad essere.

Ma quando si accorsero che la convivenza con i Protostorici stava prendendo una brutta piega, se ne avvilirono, tardivamente.

Ne parlarono a lungo tra loro e qualche timida protesta cominciò a farsi sentire .

Non tutti stavolta erano convinti che la partenza fosse l’unica soluzione: tutto sommato i Protostorici erano brava gente – sostenevano alcuni- devoti e rispettosi delle leggi divine e solo un po’ meno di quelle umane; forse un po’ violenti anche se astemi, forse privi di umorismo, ma ci si poteva anche ragionare se solo si aveva l’accortezza di obbedirgli ciecamente e rinunciare a quel capriccio adolescenziale che laggiù, oltre il mare, chiamavano libertè.

Altri, invece, non erano dello stesso avviso, trovavano i Protostorici dispettosi e prepotenti, per nulla leali e con una incomprensibile passione per lo scontro fisico.

I Protostorici erano infatti dei provocatori nati e non c’era cosa che li facesse imbestialire di più di chi non accettava le loro provocazioni, poiché erano sempre alla ricerca di un pio pretesto per tafferugli, vendette e rappresaglie nelle quali davano il meglio della loro fedele creatività.

La misura fu colma quando dopo un lungo dibattito tra i saggi Protostorici che governavano adesso il paese con spietata saggezza si decise di abolire il gioco tipico dei Maramei: troppo libertino,  dissero, e certamente inviso agli dei, i quali, pare, avessero dato irrevocabile mandato di cancellare questa pratica così empia.

Questo gioco della discordia consisteva nel trovare un equilibrio tra quattro squadre costituite per sorteggio tra tutta la popolazione: quattro robuste corde, ognuna delle quali era tesa da una squadra, partivano da un grosso nodo centrale sul quale un ragazzo autocandidatosi cercava di ballare restando in equilibrio .

Al suono di una musica quale che fosse, a seconda degli strumenti che si riusciva a procurare, le squadre cominciavano a girare a ruota cercando di mantenere le distanze mentre, aumentando progressivamente la velocità, dovevano evitare di fare cadere il ballerino che di volta in volta si cimentava nella precaria esibizione.

Il gioco, a ben vedere, implicava che le squadre fossero più alleate che antagoniste e sconfitti erano tutti nel momento in cui non si riusciva a mantenere equidistanza e sincronismo; così l’errore del singolo pur non pregiudicando la buona riuscita del gioco, giacché obiettivo del gioco era comunque divertirsi, veniva tuttavia accolto con simpatici sberleffi agitando la mano a ventaglio davanti al naso e pronunciando un suono derisorio che riproduceva il nome del popolo stesso.

Come a dire:  Ci hai fatto perdere tutti, ma perché sei uno di noi.

E come potesse questo gioco essere inviso agli dei i Maramei non riuscivano proprio a capirlo, né i gli illuminati governanti nella loro criptica sapienza parevano intenzionati a spiegarlo in modo che fosse comprensibile.

Dunque i Maramei ci rimasero molto male quando la legge, che ritenevano all’inizio solo uno scherzo, cominciò ad essere applicata: alcuni se ne fecero una ragione e pensarono di poter sopportare, alti manifestarono il dissenso appartandosi e aspettando tempi migliori, altri ancora, che non volevano rinunciare anche a questo, iniziarono a pensare che sarebbero andati via.

Non era facile andar via da quel paese, anche perché non sapevano proprio come c’erano arrivati, e chi ci provava era costretto a vagare tra tentativi ed errori cercando qualcuno che gli sapesse indicare la via per il paese dei Barocchi.

I Maramei avevano sentito tanto parlare di quella terra, pensando che fosse un luogo immaginario di quelli che esistono solo nelle favole o nelle fantasie dei viaggiatori, fino a quando proprio i Barocchi non si erano  manifestati, loro e le meraviglie del loro mondo.

I Barocchi erano gente straordinariamente elegante, nell’abbigliamento e nel contegno, colti di una cultura millenaria che nulla aveva ancora da imparare, e di principi così integrali e di morali così relative da essere a prova d’inquisizione.

Tante cose si dicevano di questo popolo, ma una in particolare colpiva i Maramei: essi infatti, che nulla temevano e ogni cosa disponevano per il meglio, avevano un certo orrore del vuoto e si sforzavano in ogni modo di riempire tutto ciò che poteva in qualche modo somigliargli.

Così, ad esempio, accumulavano impegni che si sovrapponevano e confondevano, e se ne lamentavano, ma in realtà solo per dimostrare di non avere vuoti di tempo, e tanto si vergognavano di mostrarsi pigri e sfaccendati da aver inventato appositamente strumenti da punzecchiare o carezzare curiosamente per darsi così una decorosa aria impegnata.

I Maramei ne sorridevano: un po’ per inesperienza un po’ per istinto essi apprezzavano il vuoto, gradivano l’ozio, rifuggivano la complessità senza sentire il dovere di elaborare complesse filosofie che giustificassero i loro comportamenti e ne promuovessero l’imitazione.

Era un atteggiamento immaturo, che gli altri popoli disapprovavano profondamente e deridevano con il ghigno della loro superiore civiltà, competitiva e competente.

Quelli tra i Maramei che decisero di partire, dunque, lo fecero carichi di apprensione, colmi della speranza di ritrovare serenità e preoccupati dall’ansia di deludere le aspettative di chi restava o di confermarne i sospetti.

Già, perché i benevoli Protostorici, amareggiati dalla proterva indolenza di questi all’adesione alle nuove norme, si preoccuparono di qualificarli come inetti e fannulloni, vigliacchi che abbandonavano la famiglia in difficoltà, la patria nel momento del bisogno per inseguire il capriccio di una vita dissoluta laddove costumi indecenti e leggi permissive avrebbero loro consentito di sviluppare quei cromosomi maligni che, secondo infallibili teorie genetiche tempestivamente concepite da prestigiose comunità scientifiche, covavano già in se’.

(continua)

 

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here