C’ero una volta io senza parole
lo sguardo incerto
tra il non più e l’altrove.
Tra l’ostinato ateismo dei fatti
aderivo al mio tempo, come tanti
non senza disagio, è chiaro, non privo d’incertezze,
con l’aria goffa e calma di chi non perde mai, non bluffa, non bara;
soltanto: se non vince impara.
Vagavo così dove il mondo è palese,
senza filtri, senza pretese.
Col sole a tratti
di ombre qualcuna,
distanti.
Anni collaterali, sentimenti empirici
vite truccate in tempi cosmetici.
Urlate nel vuoto a piene mani
navigano idee raffazzonate
tra le onde del gran mare
come scogli ingannevoli, mitiche sirene
che cantano le falsità che ognuno vuol sentire
e alla deriva, naufraghe impaurite
orfane di senso, parole scolorite.
Tra le pieghe del giorno
pisciava intanto un cane, ignaro, in piazza Duomo
scodinzolando segnava il territorio,
fiutando odore di sottomissione: Viva il padrone, Viva il padrone!
Sembra che dica con la coda allegra
mentre due anziane avanzano sdegnate,
beghine grigio nonna, pie donne in permanente
sincronizzate, miti, a bassa voce
si segnano la fronte giocando un paradiso a testa o croce.
Procede ognuno col suo passo
virando per istinto o per incanto
attratto dalle luci respinto dalle voci
chi trova il suo rifugio, chi perde il filo
chi prende fiato, chi aggiusta il tiro
chi sa la vita quanto costa cara
chi sogna chi s’illude chi dispera.
Ma dimmi tu, lettore più avveduto
che pesa più nell’alchimia perfetta
dell’armonia tra forma e contenuto,
una parola vuota o una non detta?