ospdi Elisabetta Viti –

Ma più di tutto pesano, sempre, le risate. Quelle dei medici del reparto ginecologico dell’Ospedale di Reggio Calabria, dopo l’ennesimo danno inflitto – secondo l’agghiacciante racconto dell’inchiesta “Mala Sanitas” -all’intimità (fisica, psicologica, morale) delle donne capitate per caso sotto i loro bisturi. E quelle degli imprenditori che, all’indomani del terremoto dell’Aquila, non trattenevano gaudio e indecenza per i profitti, personali, a venire (“Io stamattina ridevo dentro al letto”). In mezzo, come la glassa britannica sulla torta – giusto per scostarci anche idiomaticamente dall’humor nero del Brutto Paese che siamo (diventati?) – le risate della prefetto, al telefono, pensando alla commozione falsamente inscenata davanti a quel che restava e resta della Casa dello Studente, durante la prima visita al capoluogo abruzzese.

Chicche di disumana e per niente comica impudenza che – non è mai abbastanza ovvio ricordare e non ci può essere niente di ovvio in una storia di danni, mortali, e beffe al grado zero – ci sono note tramite le tanto chiacchierate chiacchiere delle intercettazioni.

Grazie ad esse, a voler essere precisi, sul podio della volgarità e dell’ (i)rresponsabilità ci sale l’equipe di medici calabresi: se non altro (lo scrivo per consapevole provocazione) chi rideva dell’Aquila non era chi aveva causato il danno. Mentre nella città dei Bronzi e della Testa del Filosofo è come se a ridere dei morti del sisma (paragone purtroppo calzante vista la memoria tellurica dello Stretto) sia stata la Natura stessa. E in fondo un po’ deve essere così, dato che solo la malignità leopardianamente cosmica di una entità (non umana) che si crede superiore può spargere sghignazzi sulle vittime dei propri crimini. Se poi tra le vittime c’è anche la sorella del carnefice in prossimità di malacarne, ne vien fuori una fotografia spietata del degrado che la mafia ha portato fin dentro le famiglie. E che, seguendo il filo dell’ analogia abruzzese, va dove c’è odore di soldi. E, appunto,di risate.

Alla faccia della suddetta Testa di Filosofo con i suoi rimandi –inevitabili – a Socrate e alla maieutica: un aspetto simbolico dell’inchiesta di questi giorni per niente trascurabile, se ad essere offesa dalla Mala Sanitas è, insieme al corpo delle donne e dei loro bimbi non nati, anche l’essenza stessa della filosofia (e delle radici magnogreche) come arte ostetricia.

E’ durissimo constatare tutto ciò per me che, nata a Reggio ma di casa da alcuni anni all’Aquila (per l’impossibilità di restare in una città che non trattiene ma sputa i suoi figli e questa, forse, è un’altra storia), sento in prima persona la vergogna di vicende che mi offendono anche come donna che crede nelle donne. E nella solidarietà di genere. Questo brutto pasticcio vede infatti, da un lato, donne (donne medico, infermiera e persino levatrice di socratica dissacrata significazione) complici nel far piangere altre donne (le une di aborto, le altre, parafrasando De André, di cinico orrore) e quindi far ridere i propri colleghi maschi in un trionfo di smargiassa trivialità (“gli ha sfondato la vagina” e giù risate). Dall’altro, una signora prefetto ridere in privato della lacrime versate, per pubblica finzione, davanti alla morte di figli altrui. Dimostrando, ancora una volta col poeta genovese,che il dolore delle altre“è un dolore a metà”. E persino molto meno.

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