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di Dario Nunnari –

Solo i più volenterosi, solo quando il tempo si distrae per qualche ora, possono raggiungere la piccola Ovinia, arrampicata alle spalle del monte che la protegge e la nutre, la domina, talora la punisce e guarda altrove.
I suoi abitanti, sempre meno e meno disposti al sorriso, conoscono il dovere di sopravvivere, impartitogli a sguardi e stenti, a cipolla e acqua fredda.
E lo riproducono fieri, senza entusiasmo.
E senza entusiasmo guardano i visitatori curiosi passare allegri e affascinati tra le loro catapecchie, scrutarne l’interno, sussurrare qualcosa tra loro e riderne.
Osservano questa gente, venuta da chi sa dove, con rimprovero muto, seguendoli con gli occhi mentre essi fotografano una porta divelta o un tetto crollato, una sedia a guardia di un uscio o un finocchio selvatico cresciuto tra le crepe dei muri, sguardi disillusi di belve in cattività e gesti quotidiani composti.
Il visitatore, assorto, ignora la prevaricazione della sua incursione, lo animano il piacere e l’avventura non già la volontà di mortificare, una certa dose di pietà e nostalgia e non la scarsa volontà di comprendere.
Per le stesse ragioni egli cerca anche  il contatto con quella gente, saluta con cerimonia esibita e si informa di usanze e disagi, tradizioni e parole del luogo, giocando a ricordarne traccia nel passato proprio o dei propri antenati, attento a non offendere, pronto a ringraziare.
Cosa ci sia di così importante, così stravagante, così bello in tutto questo gli abitanti di Ovinia forse non se lo chiedono neanche più e tornano alle loro faccende mai interrotte mentre ripensano distrattamente a quelle persone curiose che continueranno a giungere lì negli stessi giorni, con le stesse facce e le stesse domande, permettendosi di sognare il passato remoto che loro maledicono ogni giorno, costretti come sono a riviverlo in una sorta di presepe moribondo, con l’aggravante dell’eternità relativa.

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