Le donne e gli uomini sono un po’ come gli alberi. Ancorati alla terra che li ha generati, traggono da essa linfa vitale e ne riflettono inevitabilmente le caratteristiche, le peculiarità – ogni porzione di terra è unica nella propria composizione; la chiamiamo sempre humus, ma è diversa in ogni luogo. Da persona non religiosa, non ho mai avuto difficoltà a considerare la terra come un qualcosa di sacro, e le innumerevoli metafore di cui disponiamo mi dimostrano che questa visione è così condivisa e – appunto – radicata nella nostra cultura, che sacralizzare il concetto di terra non può essere solo un fatto personale. Anche i bambini, istintivamente, lo sanno, e a loro va spiegato molte volte che “la terra sporca”, perché proprio fanno fatica a capirlo. Infatti, come si può essere “sporchi di terra”?

L’intera storia del nostro paese è storia di donne, di uomini e di terra: l’agricoltura, la pastorizia e le maestranze artigiane, i Comuni e le campagne circostanti, la tragica oscenità del latifondo e il desiderio atavico di terra di fittavoli e braccianti; e poi le lotte, le occupazioni, l’abbandono forzato e l’emigrazione. Tutta la nostra storia è un filo rosso che ci lega alla terra. Se ogni tanto ce ne dimentichiamo, è perché troppo spesso i libri si concentrano su pochi fatti eclatanti, amplificandoli a dismisura, e dimenticano invece di raccontarci come la vita va avanti.

I veri contadini la conoscono bene, la terra; la hanno osservata ed ascoltata per secoli, sanno prendersene cura, assecondarne i tempi, gestirne i cicli. Sono saggi come le vecchie querce, gli ulivi secolari. E i veri contadini sono i custodi di tutti noi, perché la terra, se ben tenuta, ci sfama con naturalezza e senza artifici; e la terra, se curata a dovere, non frana. Per chi, come me, affonda le proprie radici in una zolla salmastra di sedimenti alluvionali ai piedi dell’Aspromonte, questa non è cosa da poco.

Chi non rispetta la terra è pazzo ed è volgare. È pazzo chi, in nome di una produttività sempre maggiore, dovuta non al bisogno alimentare ma a logiche di mercato perverse e distorte, corrompe la terra con chimica e artifici. Egli lascerà ai suoi successori una terra impoverita, inutilizzabile e malsana – i veri contadini sono, invece, lungimiranti. È volgare chi non è disposto a conoscere e rispettare la specificità del proprio territorio e si limita a valutarne solo gli aspetti immediatamente monetizzabili: per questa persona, destinare un terreno a frutteto, orto, palazzoni, discariche sarà esattamente la stessa cosa. Un rappresentante politico volgare procura alla terra danni incalcolabili. Costruisce un termovalorizzatore in una zona di aranceti e permette alla grande distribuzione di imporre, per le arance, il prezzo vergognoso di 6 centesimi al chilo, mortificando il contadino, uccidendo il bracciante.

Mi sono innamorata dell’agricoltura ascoltando i racconti dell’occupazione delle terre direttamente dalla bocca di quei contadini, ormai anziani, che ne avevano allora preso parte – storia che dovremmo ricordare sempre e della quale invece non si parla mai. Ho cominciato a praticare questo amore cercando di svincolarmi il più possibile dalla GDO e comprando solo prodotti di stagione e direttamente dal produttore, laddove fosse possibile. A chi mi diceva che quei prodotti erano sporchi di terra, rispondevo che la terra non sporca.

È con questa consapevolezza, con queste premesse, che mi sono recata pochi giorni fa, un po’ per gioco, un po’ per caso, ad un incontro organizzato dalla Coldiretti reggina per discutere, insieme ai rappresentanti di diverse forze politiche candidati alle prossime elezioni, un programma in cinque punti, al fine di sondare l’eventuale disponibilità all’attuazione di tale programma nel corso della prossima legislatura. Il Manifesto Politico Coldiretti era facilmente reperibile su internet: l’avevo stampato, letto e analizzato, per arrivare all’incontro preparata e con una certa contezza dei temi che sarebbero stati trattati, come d’altra parte è mia abitudine fare. Non sono una fan della Coldiretti, istituzione che mi è sempre sembrata incline ad assecondare non la politica dei contadini e della terra, ma la politica del potere. Tuttavia, l’iniziativa conosciuta come “Campagna Amica”, che già da anni ha il merito indiscusso di aver riportato nelle nostre piazze i produttori locali affinché potessero vendere direttamente i propri prodotti, ha suscitato in me sin dal primo momento una grande approvazione. Mi sembrava ristabilisse una relazione naturale e logica che era stata in passato bruscamente interrotta per chissà quali scellerate ragioni. Era precisamente questo spirito, questo tipo di politica che speravo ottimisticamente di potere appoggiare. E d’altra parte, avevo trovato ampiamente condivisibili i cinque punti elencati nel Manifesto in questione, certamente con qualche riserva in merito ad alcuni passaggi – il timore ad esempio che la semplificazione burocratica illustrata all’interno del punto 3 possa tradursi di fatto in qualche caso in una sensibile diminuzione delle tutele per i lavoratori, stagionali e non; oppure la preoccupazione che un unico Ministero del Cibo possa in fin dei conti favorire gli interessi delle lobby di trasportatori e trasformatori, invece che del mondo dei produttori. Riserve, tuttavia, all’interno di un contesto di provvedimenti tranquillamente sottoscrivibili perché, a mio parere, emanazioni di puro buon senso. Come non essere d’accordo, ad esempio, sull’etichettatura obbligatoria, che sostiene gli interessi dei produttori legati al territorio, contro lo spietato gioco al ribasso imposto dalle multinazionali? Come non approvare l’abolizione del segreto sulle importazioni o la legge sui reati agroalimentari? Per queste ed altre misure la mia posizione personale era addirittura di rilancio: partiamo da qui ma portiamo il discorso molto più avanti, con coraggio e per la gente. Discutiamone almeno.

Credevo che ne avremmo discusso. Credevo che il confronto con candidati già conosciuti – e che avevano avuto già modo di dimostrare la loro sostanziale indifferenza e cecità nei confronti della terra e della gente – sarebbe servito a qualcosa, anche solo a far emergere le lacune, a far trasparire la crisi. E mi sbagliavo.

Perché purtroppo anche la terra a volte sporca, e allora si chiama fango.

Ha un vestito molto costoso e il profumo inconfondibile dell’imbroglio. Arriva in ritardo e impreparato, ma nessuno sembra fargliene una colpa. D’improvviso, realizzo che è proprio lui la vera ragione dell’incontro, lui che rappresenta forze politiche che nel loro programma – e nel modo di governare che hanno espresso in passato – hanno umiliato e mortificato la terra, i lavoratori, l’ambiente. Il liberismo sfrenato e la tutela degli interessi dei grandi investitori, insostituibili pilastri fondanti di ogni destra, sono incompatibili con i cinque famosi punti del programma, avrei voluto dire, affinché tutti se ne accorgessero, ma d’un tratto non era più importante: il candidato in questione aveva appena detto che è bene mangiare cibo di qualità – perché in effetti a volte dopo pranzo si sente un po’ appesantito pur avendo mangiato poco e non è una cosa piacevole – e quindi adesso bisognava applaudirlo fino a spellarsi le mani. Avrebbe poi aggiunto, il candidato in questione, che a suo parere la Calabria dovrebbe diventare come la pianura Padana, una serie ininterrotta di aziende votate ad un’agricoltura intensiva e ad alta produttività. Avrei voluto chiedergli se avesse quindi intenzione di spianare le montagne, per realizzare questo suo programma, perché, nel caso in cui non lo sapesse, di massicci in Calabria ne abbiamo tre, meravigliosi, aspri, impervi, enormi e poco o niente urbanizzati, e se non è ricchezza questa, allora io non so più che cosa lo è. Ma, anche stavolta, non è stato possibile, per via degli insistenti applausi di chi, ormai dimentico dei cinque punti e del manifesto politico intero, già gioiva al pensiero di inaugurare – chissà – delle risaie o – perché no – immense piantagioni di cacao o di caffè.

Da questo momento in poi, non ho più voluto chiedere nulla. L’asservimento al potere è uno spettacolo vergognoso, ed io sono rimasta, incredula e sbigottita, ad osservare con disprezzo una politica che mi fa schifo, che svende i territori, impoverisce la gente, insulta la terra.

Perché le donne e gli uomini sono un po’ come gli alberi: ancorati alla terra che li ha generati, traggono da essa linfa vitale e ne riflettono inevitabilmente le caratteristiche, le peculiarità. Una terra derubata, impoverita, corrotta, genera alberi deboli e pronti a piegarsi ad ogni alito di vento, talmente flessibili da potersi perfino chinare al suolo, se necessario. Si sentono al sicuro, in questo loro continuo ed ondulante balletto, che è vergogna e tristezza, dell’ulivo secolare, della vecchia quercia.

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