Sono belli  i verbi “schiudersi” e “scatenarsi”, in fila così, prima l’uno e poi l’altro. Il primo è lento ma determinato, il secondo è un verbo ribelle. Sono utili per raccontare quello che può prepararsi in questo tempo, perché accada un tempo diverso Dopo.

Si schiude un uovo, si schiudono le labbra per dire una buona notizia, si schiudono gli occhi ai ciechi, si schiudono gli orecchi ai sordi. È incontenibile quel che avviene in seguito, una sciagura per i moderati.

Sempre in tema di parole Quaresima è una parola più bella di Quarantena. È la stessa radice, ma sono due alberi che crescono in modo diverso. La quaresima mette fiori, la quarantena secca presto. La quarantena è chiusa, è una misura di malattia, un intervento ristretto. C’è nella quarantena l’imbroglio di fare sentire tutti uguali, è invece il trionfo della disuguaglianza. Chi ha ha, chi non ha ha ancora di meno. La quarantena è per chi ha benessere, per chi può permettersi una casa calda e accogliente, un modo comodo di trascorrere il tempo.

Dentro una quarantena ci sono tante quaresime, quanti sono i giorni, le ore, i secondi. Un mondo dentro cui si compiono le conseguenze delle restrizioni, dentro cui qualcosa si agita, vibra, cresce. La quaresima dei detenuti come quella dei medici, la quaresima di chi ha perduto qualcuno come quella di chi ha partorito, la quaresima dei senza lavoro come quella delle persone sole. Ogni persona una quaresima, se un senso deve avere questa quarantena è che ognuno trovi la propria. E nella distanza a necessità di legge, trovare ciò che ci fa più vicini. Non fare male al prossimo con uno starnuto, è abbastanza poco, deve esserci un senso maggiore. Ognuno lo trovi, senza questo è difficile che il mondo cambi. Ora è più cattivo, più chiuso, ha più paura dell’altro, cerca un pretesto e un capro espiatorio, usa il povero per promuoversi e farsi strada. È  in quarantena. Trovare la porta che dischiuda alla quaresima -credenti o non credenti che importa?-  trovare la porta che lasci uscire dal dolore privato per sentire che il dolore è uno, “ha una voce e non varia”. La quaresima di chi non ha un tetto, acqua per lavarsi le mani, la quaresima di chi non ha stipendio, cibo da mettere in tavola. Sentire a poco a poco che qualcosa si rompe, lentamente come un guscio d’uovo. Si schiude un senso, una comprensione profonda che quel che accade è sempre accaduto ed è sempre stato ingiusto, iniquo, sbagliato. E non poterne più, di fare “parti uguali tra disuguali” distribuendo assistenza e prebende pensando di riportare il conto in pari. Non è così che succede, non è così che finisce.

Dal suo inizio alla fine sarà più lunga questa quaresima, fuori canone. Duri quello che deve durare, purché sia un modo di sentire il battito del mondo, di poggiare l’orecchio sul cuore del tempo. E sentire schiudersi un senso che abbiamo sempre saputo, tanto è antico e umano: che questo è il tempo di dare da mangiare, di dare da bere, di ospitare il forestiero, di vestire gli ignudi, di visitare i malati, di andare a trovare i carcerati. Ma solo perché nessuno debba avere più fame o sete o sia senza casa o senza abiti o solo. Finisca per tutti questa quarantena, si schiuda in un tempo di quaresima.

Per tutte e tutti allora, sentiremo gli anelli delle catene spezzarsi e frustare l’aria, e persone nuove e libere sciamare per le strade e per le piazze. Succeda così o sarà come se niente fosse successo.

Quando avverrà questo, nel silenzio profondo e misterioso delle città e dei paesi di adesso, sentiremo schiudersi un rintocco distante come una pioggia tenue. E poi, inesorabili, si scateneranno le campane di Pasqua.

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