Eastern_State_Penitentiary_Cells

di Pasquale Neri –

 

 

Il serpente[1] e la cura dell’anima.

L’istituzione manicomiale ha in sé, nel suo carattere violento coercitivo discriminante, una più nascosta funzione sociale e politica: il malato mentale, ricoverato e distrutto nei nostri manicomi, non si rivela soltanto l’oggetto della violenza di un’istituzione deputata a difendere i sani dalla follia; né soltanto l’oggetto della violenza di una società che rifiuta la malattia mentale; ma è insieme, il povero, il diseredato che, proprio in quanto privo di forza contrattuale da opporre a queste violenze, cade definitivamente in balia dell’istituto deputato a controllarlo. Di fronte a questa presa di coscienza, ogni discorso puramente tecnico si ferma. (Basaglia)

 

Cosa c’entrano gli esodi con la psichiatria[2]? Forse nulla, o forse tanto. Ma se esodo è, prima di tutto, azione di un sistema oppressivo e pensiamo a come, nel corso dei secoli, gli uomini si siano organizzati per curare l’anima, se guardiamo complessivamente al sistema per “trattare” i folli e poi i pazzi e poi ancora i malati di mente, non è possibile non pensare a un vero e proprio sistema di dominio e oppressione verso chi era…diverso. E di cui si aveva paura. Una paura, ironia della sorte, folle, irrazionale, a cui pochi si sono saputi sottrarre.

E per difendersi si sono inventate cure diverse, ciascuna adatta ai tempi. Nel corso del tempo i folli, i pazzi, i malati di mente sono stati derisi, perseguitati, imprigionati, torturati, impalati, bruciati. Poi la civiltà dei tempi moderni ha scoperto modi più accettabili per curare/difendersi e tenere in pace la propria coscienza. I manicomi sono stati la soluzione. Piccoli e grandi luoghi di oppressione dentro i quali malati mentali (e non solo, ancora e quasi fino ai giorni nostri), venivano spogliati – a volte anche fisicamente – del proprio essere persone e privati di qualsiasi speranza di vita degna. “…quando una persona è invalidata in quanto persona, perché non è come dovrebbe essere e viene rinchiusa in un manicomio, perde la possibilità di resistere contro l’altro, perché non ha un’esistenza autonoma e degna”(Benasayag). Ma il manicomio non è mai stato solo il muro e le inferriate che separavano, il manicomio è stato anche un sistema determinato da quanti ci lavoravano dentro, un complesso di azioni, scientificamente organizzate che avevano il compito di mantenere in piedi una istituzione deputata a difendere i sani dalla follia (Basaglia).

Ma esodo è anche scatto di una coscienza che si ribella all’oppressione e anela libertà. Non pochi, anche da dentro quel sistema, hanno provato a restituire senso alle parole dignità, persona, libertà. E ci sono stati anni durante i quali andare oltre mura e inferriate significava entrare in una società ricca di speranze e di promesse, una società solidale che lottava per migliorare se stessa (Benasayag). Oggi, di quella società resta poco, qualche ricordo, segni sparsi, brandelli di speranza, frammenti di promesse tradite o mai mantenute, ferite ancora sanguinanti. I muri e le inferriate non sono scomparsi, sono solo mutati. La paura regna sovrana, e i confini tra i nuovi manicomi e il resto della società sono sempre più flebili, sottili, mutevoli ad un soffio di vento. E tutti siamo esposti alle sue raffiche. Il muro di apartheid che una volta segnava i confini tra il manicomio e il resto della società, oggi è frazionato negli infiniti muri che separano le persone e che separano l’umanità in vincente e perdente. La società è divisa, i legami di solidarietà e le fragilità non hanno più diritto di esistere. Siamo dentro questa società e al contempo ne siamo minacciati. Alla luce di tutto questo, oggi aiutare qualcuno a uscire dal circuito psichiatrico pone la domanda: uscire per andare dove, verso cosa?[3] È un esodo al rovescio ora che anche gli OPG vanno verso l’abbattimento formale dei muri? Basta questo per restituire senso alla vita delle persone? È bastato questo prima?

Il pericolo, dunque, è che i movimenti della storia collettiva e personale, come quelli delle onde, bagnino i sentieri della vita di ciascuno di noi, dando forza al serpente che ogni tanto ospitiamo. Ma è anche il vuoto esistenziale nel quale ci troviamo immersi quando il serpente ci abbandona. Tutti noi, come il malato di mente, dobbiamo lottare per riconquistare a poco a poco il … contenuto umano della….vita.

 

[1]       Una favola orientale racconta di un uomo cui strisciò in bocca, mentre dormiva, un serpente. Il serpente gli scivolò nello stomaco e vi si stabilì e di là impose all’uomo la sua volontà, così da privarlo della libertà. L’uomo era alla mercé del serpente: non apparteneva più a se stesso. Finché un mattino l’uomo sentì che il serpente se n’era andato e lui era di nuovo libero. Ma allora si accorse di non saper cosa fare della sua libertà: “nel lungo periodo del dominio assoluto del serpente egli si era talmente abituato a sottomettere la sua propria volontà alla volontà di questo, i suoi propri desideri ai desideri di questo, i suoi propri impulsi agli impulsi di questo che aveva perso la capacità di desiderare, di tendere a qualcosa, di agire autonomamente. In luogo della libertà aveva trovato il vuoto, perché la sua nuova essenza acquistata nella cattività se ne era andata insieme col serpente, e a lui non restava che riconquistare a poco a poco il precedente contenuto umano della sua vita”. L’analogia di questa favola con la condizione istituzionale del malato mentale è addirittura sorprendente, dato che sembra la parabola fantastica dell’incorporazione da parte del malato di un nemico che lo distrugge, con gli stessi atti di prevaricazione e di forza con cui l’uomo della favola è stato dominato e distrutto dal serpente. (Basaglia)

[2]       Il termine è stato coniato dal medico tedesco Johann Christian Reil nel 1808, dal greco psyché (ψυχή) = spirito, anima e iatros (ιατρός) che significa cura (medica). Letteralmente la disciplina si dovrebbe occupare della “cura dell’anima”.

[3]       Resistenza è creazione di opzioni diverse, intervista a Miguel Benasayag di Giulia Innocenti Malini, in Animazione Sociale – febbraio 2014

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