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di Dario Nunnari –

La città di Leonia era nata ai margini di un mondo. Genti spinte sempre un po’ più in là da ondate umane, successive come cerchi concentrici, si erano allontanate dalle loro sedi portandosi dentro ciò che di più primitivo potevano. E arrivate al limitare del loro mondo avevano incontrato altri cerchi concentrici spinti via da altri mondi ed altre genti, con il loro carico di pazienza e ricerca.

Lì, in quel luogo di scarto ed emarginazione eppure di incontro e fusione, la città di Leonia era nata, a sua insaputa, ultima soluzione. Tante città era stata nel tempo Leonia, e forse un tempo era stata anche una città gradevole e gentile, con giardini fioriti in ogni stagione che la inondavano di scale cromatiche iridate, ne solleticavano le strade di profumi vivaci, ora acri ora dolci, e si confondevano con fragranze marine e zefiri lontani. E la brezza passava tra la gente rimescolandone idee e sentimenti in altri, ai quali ognuno, un po’, partecipava.

Ma solo l’eco rimaneva di allora, un alone di polvere silenziosa, di rumori ombrosi, l’alterigia decrepita di ciò che è stato e non accetta che gli si rimproveri di non esser più. Vittima di se stessa e della sua ricca eredità la città di Leonia ha continuato senza sosta a rifare se stessa tutti i giorni. Insoddisfatta, vorace, eternamente illusa.

Per nulla intimoriti da profezie apocalittiche, rigorose previsioni scientifiche, fatali necessità economiche o vaticini malevoli di maldicenti calunniatori che a giorni alterni e con alterna intensità ne prospettavano scenari drammatici in un futuro neanche tanto remoto, gli abitanti di Leonia hanno acquistato l’inutile come fosse necessario, scartato insieme al superfluo ciò che non lo era e consumato in ragione dell’idea che avrebbero voluto avere, o volevano dare, di sé.

E poi senza criterio, senza legge, senza principio, hanno buttato, accumulato, ammassato, bruciato e seppellito, trovando con soddisfazione negli spazi pubblici, a tale scopo adibiti dalla loro stessa egoistica incuria, una valida giustificazione che soffocasse nei miasmi prodotti l’impertinente senso di vergogna che di tanto in tanto osava ancora fare capolino. Tutto mutava in città e ciò che non mutava invariabilmente giaceva abbandonato. Le case basse e ordinate, le villette ornate da ghirigori in ferro battuto e stucchi, i palazzi, con i balconi che si sfidavano faccia a faccia, si sgretolavano lentamente o rapidamente lasciavano spazio a caseggiati diffidenti e disadorni, palazzi intrappolati da fumo e cemento, o diventavano parcheggi, centri commerciali, attività produttive, luoghi dinamici nati per fallire e fare spazio, indifferenti alle esigenze immateriali di una comunità che rincorrendo sempre nuove identità smarriva l’unica che l’aveva da sempre caratterizzata.

Con tanto gusto cambiavano gli oggetti intorno a sé gli abitanti di Leonia, che, non contenti delle sole cose tangibili, presero senza accorgersene a cambiare loro stessi, scoprendosi rapidamente raffinati maestri in questa singolare arte che biasimavano negli abitanti delle città circostanti non riconoscendola in se stessi. E sostituivano, modificavano, disfacevano e gettavano via valori, maniere o sentimenti con la stessa pratica disinvoltura priva di logica con cui rifiutavano le mode superate.

Catene e vincoli erano il passato, la tradizione, il contegno; e tutto quanto avevano pensato per distruggere catene e vincoli li avvinceva e imprigionava. Si baloccavano ora al tepore del mito accattivante e iniquo della civiltà che riconosce sé soltanto considerando l’altro incivile, si lasciavano sedurre dalle fascinose sirene della novità, sopportavano docili che il domani restasse sempre il giorno dopo.  E masturbavano intanto il loro ego virtuale nell’autocompiaciuta ricerca di consensi digitali e favori sillogistici e si lasciavano sodomizzare, disciplinati elettori-spettatori-idioti, nelle orge del relativismo manicheo della politica da talk show, neanche poi tanto distante da quella che esercitavano al bar. Tutti, menefreghisti per scelta o per necessità e militanti vanagloriosi, qualunquisti integralisti e intellettuali onanisti, neoliberisti apostoli del profitto e dei consumi e marxisti per amore di controversia, eruditi venerandi e martiri per vocazione, indignati a comando ed esasperati a scadenze programmate.

Tutti, ognuno a modo proprio e in misura diversa, coinvolti.

E poi, di lì, di nuovo, tornavano alle facili abitudini e ai miseri problemi individuali che facilmente li stancavano; e tornavano a desiderare di cambiare pelle a sé, alle loro vite e alla loro città, a sperare che qualcuno lo facesse al posto loro, a credere che lo avrebbe fatto per loro. E ancora cambiavano: bandiere leader partiti; blanditi, in una oscillazione continua e continuamente al ribasso tra il diritto e la concessione, da affabili governanti gonfi della rendita della loro indulgenza. Non c’era più nulla ormai che non fosse stato cambiato o forse non c’era più nulla che potesse cambiare quando ci si accorse che per secoli la città aveva portato sempre lo stesso nome.

Immediatamente la comunità fu convocata per decidere un nome nuovo. Ma riuniti tutti insieme, guardandosi sfiorandosi e parlandosi, gli abitanti di Leonia si accorsero che in fondo quella era rimasta l’ultima cosa ad unirli. Quel nome, da secoli, esprimeva della loro natura non solo aggressività e forza, ma anche dignità e desiderio di libertà, solidarietà e bellezza, decoro e coraggio e per nulla al mondo lo avrebbero cambiato. Tutto questo li fece riflettere.

E per la prima volta dopo tanti anni tornarono a casa sentendosi davvero diversi.

 

 

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