LA-CASA_1-160x120di Ernesto Romeo

 

A occhio e croce saranno stati trent’anni che non mi ritrovavo davanti un album Giotto, uno di quegli album dove da bambino, come tutti i bambini, credevo di poter riversare il mondo intero. Quello che del mondo  avevo visto e quello che ne immaginavo. Case senza finestre ma con un bel camino, un po’sbieco ma  sempre funzionante come stavano a dimostrare nuvolette di fumo grigio, un albero più alto del tetto a minacciare il cielo e un bimbo con i piedi uno a est l’altro a ovest, più alto delle case e dell’albero stesso.

Bernice su quel rettangolo bianco proiettava le stesse identiche immagini, seminando pastelli e canticchiando, in stentato italiano, parole che il tablet vicino faceva rimbalzare tra i muri di quella cucina. Era bella Bernice,  con i suoi ventisei mesi, le treccine colorate, lo sguardo vispo e le manine sempre indaffarate. Così era Bernice prima del ritorno a casa: un ritorno che poi ritorno non era e una casa che casa, per lei, non lo era mai stata. Un mese in Nigeria, la terra della madre e di un padre che non aveva mai visto prima, un mese in ospedale con vomito e febbre alta, disidratata e abbattuta da un caldo a lei sconosciuto che le aveva soffocato persino il respiro: quei 46 gradi intrisi di umido le si erano appiccicati sul piccolo corpo, restituendola all’Italia, sua terra natia, smunta e prosciugata.

Ha ancora la tosse Bernice, ma Chigozie è tranquilla, il peggio è passato e ora la mamma ha ben altri pensieri. Tra le mani stringe un metro di legno, lo gira e lo rigira, sperando di trovare quei maledetti centimetri in più. Non ci crede Chigozie, non ci vuole credere: quella stanza non vuole crescere, anzi sembra prosciugarsi proprio come la sua piccola. E appoggia la fronte stanca sul vetro sbattuto da una pioggia incessante.

Una finestra piccola che le lascia solo immaginare da quale cielo venga giù tutta quest’acqua. Il suo primo piano è stato brutalmente soffocato da mostri di cemento, pardon, di mattoni. Alzando gli occhi Chigozie vede solo case non finite, sfinite dall’incuria e divorate dal tempo, parabole guardate a vista da ferri di varia lunghezza, case a crescenza, destinate a figli non ancora venuti al mondo, finestre sparse senza alcuna linearità, un po’ come le case che Bernice disegnava sul suo album. Sogni di bambino che diventano incubi di adulti.

Eppure basterebbe una manciata di centimetri in più, non una stanza in più, ma la stessa stanza con una parete a crescenza, proprio come le case sfinite davanti. “Mi dispiace signora, la sua casa non può ospitare più di tre persone. La legge parla chiaro e in Italia le leggi le dovete rispettare anche voi”. La sentenza l’aveva emessa il giorno prima un ligio tecnico dell’Azienda Sanitaria Locale, applicando alla lettera una norma che alla piccola Bernice ora qualcuno dovrebbe spiegare, magari con un fantasioso disegno sul suo album Giotto.

Chigozie era andata al “Caddharu” per avere quel certificato che le avrebbe cambiato la vita, ma ne era uscita col peso di una scelta dolorosa. In Italia avrebbe potuto portare solo il marito. O solo Emmanuela. Tutti e due no. La legge “che in Italia si rispetta”, glielo avrebbe impedito. La sua casa, le sue tre stanze  maniacalmente ordinate, il bagno lindo come l’album di Bernice, non erano sufficienti per poter accogliere l’intera famiglia.  Il tecnico l’aveva imparata a memoria la sua cantilena quotidiana, “le stanze da letto devono avere una superficie minima di metri quadri 9 per una sola persona e di metri quadri 14 per due persone e ogni alloggio deve essere dotato di una stanza di soggiorno di metri quadri 14 e ogni stanza dev’essere dotata di finestra apribile”

Dietro la tenda dai mille colori, guardando in su verso la trentaduesima parabola, Chigozie poteva osservare il balcone della sua padrona. La donna che le dava casa e lavoro abitava proprio lì, dall’altra parte del vicoletto. In quella casa trascorreva gran parte del suo tempo e dovendola pulire e ripulire anche più volte al giorno, aveva sempre ringraziato Iddio che fossero appena quattro stanze, cucina compresa. La vera fatica era inseguire le quattro pesti che scorrazzavano, seminando ovunque le loro diavolerie. Chigozie quei bambini li aveva visti crescere, voleva bene a tutti e quattro, a modo suo, ma gliene voleva veramente. E come la legge potesse permettere che tutte quelle persone vivessero in quelle quattro stanze non se l’era mai chiesto.

La mattina del “Caddharu”, Chigozie era arrivata al lavoro in ritardo, nel pomeriggio, e mentre stirava dalla stanza attigua rimbombavano voci litigiose che uscivano dalla televisione. Si parlava di esodi, esodi biblici di gente inerme e disperata, ma si parlava anche di uteri in affitto e della famiglia come valore assoluto. Nella testa di Chigozie tutto riecheggiava senza alcun ordine, e da quel disordine spuntava distinto il pianto della piccola Emmanuela. L’aveva lasciata a Lagos con il padre: qualche anno di sacrificio e poi tutti di nuovo insieme aveva pensato. Migliaia di chilometri di distanza che neanche Skype poteva accorciare, la dividevano dalla sua bimba, la sua prima bimba costretta a crescere lontano dalle carezze materne.

Ma Chigozie è una donna forte, e continuando ad armeggiare col suo metro misura l’amore che prima o poi ricomporrà la sua famiglia.

Non saranno certo una manciata di centimetri a fermarla, mi dice sorridendo mentre la piccola Bernice, sempre alle prese col suo album Giotto, ha dato forma e colore al ricordo sbiadito della sorellina conosciuta appena.

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